
Ventisette milioni di euro in quattro giorni. Quasi sette milioni al giorno. Più di ottocento sale piene, code ai botteghini, famiglie intere che tornano al cinema. Checco Zalone ha fatto quello che il cinema italiano non riesce più a fare da anni: riempire le sale.
Eppure, anche questa volta, l'Italia si è spaccata a metà. Da una parte il pubblico che affolla le proiezioni. Dall'altra la critica che stronca, disseziona, boccia. Ma c'è qualcosa che non torna in questa storia. E vale la pena ragionarci.
Quando Zalone piaceva alla critica
Facciamo un passo indietro. Di appena un film, e quindi di cinque anni. Nel 2020 esce "Tolo Tolo", il film in cui Zalone affronta il tema dell'immigrazione. Un film costruito per parlare di migranti, di accoglienza, di confini. Un film che cerca – e in parte riesce – a veicolare un messaggio sociale attraverso la comicità. La critica apprezza. Non è un trionfo, ma il film viene riconosciuto come un tentativo di "far crescere" il personaggio di Checco, di dargli una dimensione più adulta e consapevole. Zalone che usa il suo appeal per parlare di temi importanti: bene così.
Poi arriva "Buen Camino" e Zalone non piace più
Poi arriva "Buen Camino". Stesso autore, stessa cifra stilistica, stesso tipo di comicità per accumulo che ha sempre caratterizzato i suoi film. Ma questa volta i temi sono diversi: il rapporto tra un padre e una figlia, il cammino di Santiago, e soprattutto – ed è questo il punto centrale, quello che dovrebbe probabilmente valere più di tutti – il tumore alla prostata. E qui la critica cambia registro. Improvvisamente Zalone è retrocesso. Il film, secondo la maggior parte della critica blasonata, "non evolve", la comicità è "quella di sempre", manca la battuta fulminante.
C'è un tabù che vale meno
Proviamo a ragionare su questo. Il tumore alla prostata è una patologia che riguarda milioni di uomini in Italia. È un tema di cui si parla poco, quasi mai al cinema, anzi mai. Non se ne parla in famiglia, figurati al cinema. Perché? Perché legato a una fragilità maschile che difficilmente trova spazio nella rappresentazione culturale mainstream. Eppure, quando Zalone decide di parlarne – con la sua comicità, con il suo stile, ma comunque affrontandolo – questo non basta. Forse non è il tema "giusto" per alcuni giornali?
Viene da chiedersi: esistono temi di serie A e temi di serie B? Parlare di immigrazione vale di più che parlare di malattia? O forse il punto è un altro, e in fondo lo ha rivelato Valsecchi, suo ex produttore, in una intervista di qualche settimana fa: finché Zalone cercava di compiacere un certo tipo di pubblico intellettuale, andava bene. Nel momento in cui ha smesso, è diventato un problema.
Stesso cinema, giudizi diversi
Perché questo è il paradosso: "Buen Camino" è esattamente quello che Zalone ha sempre fatto. La sua comicità per accumulo c'è sempre stata. Il personaggio un po' goffo e imbranato anche. La struttura narrativa basata sul viaggio pure. Non c'è mai stata una grandissima evoluzione nei personaggi. Solo una sequenza di scene, risate di pancia. Un po' di riflessione.
In "Sole a Catinelle" c'era già il padre che cercava di riconquistare il figlio. Qui c'è un padre che prova a costruire un rapporto con una figlia che non ha mai avuto un vero padre. Per certi versi, quasi un sequel di quel tipo di narrazione. È una maturazione del tema, non un tradimento dello stile. Ma evidentemente quello che è cambiato non è il cinema di Zalone. È l'atteggiamento di chi lo giudica.
Checco Zalone non è mai stato politico
Checco Zalone non è mai stato politico, ma come tutti i grandi topic del momento, la politica sopra ci si è sempre fiondata. La critica (e il mondo politico di sinistra) lo aveva fatto con Tolo Tolo. Oggi, per assurdo, il mondo di destra rivendica Zalone come eccellenza italiana. Perché se la critica boccia qualcosa, automaticamente a destra ci si sente in dovere di difendere e contrattaccare. È la solita storia del ‘tiragiacchettismo' che si traduce poi nello scontro eterno tra intellighenzia e popolino.
Se c'è una cosa che proprio si può dire è che non si ride più di pancia, minuto per minuto. Le battute brucianti sono due, una sui palestinesi (il film è prodotto da Marco Cohen e Benedetto Habib: "Due ebrei", ci ha tenuto a sottolineare Zalone al Corriere della Sera) e una sulle "donne" dei miracoli inaffidabili rispetto agli uomini ("Santiago meglio di Fatima, Lourdes e Medjugorje"). Ma questo non è necessariamente un difetto.
Insomma, ventisette milioni di euro in quattro giorni parlano chiaro. Le sale piene di gente che esce soddisfatta anche. Non stiamo parlando di un pubblico manipolato o incapace di discernimento. Non c'è da scomodare il teorema di Caparezza: "se la sala è piena, il film fa schifo". Stiamo parlando di persone che scelgono liberamente di andare al cinema, pagare il biglietto, e godersi due ore di spettacolo. Zalone ha smesso di inseguire il consenso della critica. Ha fatto un film suo, sui temi che voleva affrontare, con lo stile che lo ha sempre contraddistinto. E il pubblico lo ha premiato.