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Vicino Roma c’è un’oasi dove gli animali salvati dallo sfruttamento vivono liberi

Incontrare gli animali, ascoltare le loro storie, osservare come si comportano e creare un legame con loro. A Castel Sant’Elia c’è il Rifugio Hope, un luogo in cui vivono liberi e insieme circa 300 animali di varie specie salvati dallo sfruttamento. Ecco come arrivare e quali attività si possono fare.
A cura di Alessia Rabbai
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A un'ora da Roma c'è un luogo dove gli animali salvati dallo sfruttamento umano vivono liberi e tutti insieme. Il Rifugio Hope si trova nelle campagne di Castel Sant'Elia, in provincia di Viterbo ed è gestito da Corinna Elfie, che si divide tra due lavori e che ha dedicato la sua vita ad una missione: quella di accogliere e proteggere come se fossero figli suoi cani, cavalli, mucche, bufali, conigli e tanti altri ospiti del suo rifugio, circa 300. Fanpage.it l'ha raggiunta, per farsi raccontare il suo progetto, sostenuto dalle decine di attivisti che si danno quotidianamente da fare per rendere possibili le spese e la gestione degli animali e che fa parte di altre realtà che in Italia, da Nord a Sud, ospitano gli animali cosiddetti ‘da reddito' strappati all'industria alimentare e non solo.

Come nasce l'idea del rifugio e da cosa prende il nome?

La mia attenzione nei confronti degli animali è nata fin da piccola, da adulta ho vissuto a Roma e lavoravo in ufficio, poi mi sono spostata in campagna dove ho comprato una casa con giardino ho preso con me cani e gatti. Di questo mezzo ettaro non sapevo che farmene, così vent'anni fa volevo sfruttarlo e ho contattato un'associazione che dà in adozione cavalli salvati dai macelli e sono arrivati i primi tre, poi un agnellino, un maialino vietnamita una capretta. Piano piano l'impegno di accudirli si è affiancato al mio lavoro, poi ho detto basta ad una ‘vita di neon' e ho lasciato il lavoro in ufficio per dedicarmi a loro. Il nome del rifugio viene da Hope, una pecora speciale. L'avevo notata sola in un campo e dopo giorni e giorni l'ho presa, ce la voleva fare ma è morta e ho dato il suo nome al rifugio.

Che differenza c'è tra un rifugio e altre realtà come fattorie e allevamenti anche piccoli?

Qui gli animali non producono nulla e non gli viene sottratto niente. Non si insegna a cosa serve ognuno di loro come nelle fattorie didattiche, ma vengono riconosciuti come individui. Vivono insieme, lilberi nella natura e di interagire tra loro e con le persone che visitano il rifugio, ognuno si rapporta diversamente dall'altro. Sono animali che provengono da situazioni di abusi e sfruttamento, ma dopo un recupero comportamentale riaquistano fiducia nelle persone, infatti chi viene si meraviglia di quanto sono socievoli, cercano proprio il contatto con l'essere umano. Gli animali hanno ognuno le loro abitudini e il loro posticino del cuore, so dove si mette ognuno di loro e da questo capisco come stanno e se ci sono tutti.

Cosa si può fare in un rifugio?

Solitamente facciamo due eventi al mese sui quali si può rimanere aggiornati consultando la pagina Facebook e prenotarsi allo 338 861 7828. Sono organizzati con un team di volontari, anche a tema, pranzi e cene con musica ed artisti o pomeriggi in cui si può partecipare a tante attività, come yoga, il veterinario che spiega gli animali, percorsi sensoriali tra la natura e siamo molto attenti al sociale. Abbiamo allestito una nuova area eventi, con tavolini e panche e giochi per bambini. Con gli eventi organizzati paghiamo le spese per il cibo degli animali, la gestione del rifugio e i controlli del veterinario. C'è tanto da fare dalla distribuzione del cibo, alla manutenzione di staccionate e strutture varie, alla pulizia delle stalle.

Ci racconti le storie di alcuni animali?

La mucca Moony è stata la prima presa a Nepi da un allevamento di mucche da latte, era un vitellino che si è fermato e mi ha iniziato a tirare i pantaloni, ho litigato con l'allevatore per farmela lasciare ma l'ho portata a casa. I due bufali Timon e Pumba sono stati trovati piccolissimi legati dietro ad un cassonetto dell'immondizia a Carpineto Romano, Casper il vitello bianco era a Salerno, abbandonato in montagna dall'allevatore, che non stava in piedi non vedeva e non sentiva ed è arrivato da me con gli staffettisti. Riuscire a farlo vivere è stato un miracolo per me.

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