Torture e violenze sessuali nel centro della Croce Rossa: “Mio figlio da quel giorno non sorride più”

Abusi, torture e intimidazioni. Lo scandalo che ha sconvolto il centro della Croce Rossa a Roma per persone disabili è sbarcato ormai da mesi nelle aule di tribunale. Tutto è partito nel 2023 da una denuncia presentata proprio dalla Croce Rossa (oggi parte civile all'interno dei processi in corso), poi da lì gli investigatori hanno istallato delle telecamere all'interno della struttura e mesi dopo sono arrivati gli arresti da parte dei carabinieri del Nucleo investigativo di via in Selci. In totale dieci operatori finirono nell'ordinanza del gip. Pazienti presi a schiaffi, insultati e in un caso si sarebbe arrivati perfino alla violenza sessuale. "Ti metto la penna in gola, tu stasera vuoi morire… ti scannerò tutta la notte pezzo di merda".Questa è solo una delle frasi captate dalle microspie attribuite ad uno degli operatori arrestati nei confronti di un paziente.
I processi
A maggio le posizioni dei vari operatori indagati (dieci in tutto) si sono divise in processi e provvedimenti diversi. Quattro hanno patteggiato, mentre altri tre sono stati condannati a maggio 2025 (uno degli imputati è stato invece assolto) dopo aver scelto il rito abbreviato. Oggi, 23 dicembre, inizierà il processo dei unici due imputati che hanno scelto il rito ordinario. Sulle loro posizioni pendono le accuse più pesanti: maltrattamenti, tortura e violenza sessuale. A difendere la famiglia della vittima è l'avvocato Paolo Barone. "Uno dei due imputati l'ho definito colui che ha stabilito il protocollo e le linee guida delle sevizie, perciò questo è sicuramente il processo più importante di tutta questa brutta storia". In tribunale è presente anche il papà di Mario, uno dei due ragazzi disabili vittime di abusi. "Il volto di mio figlio ormai è cambiato – ci racconta mostrandoci alcune foto – era sempre sorridente mentre ora ha uno sguardo impaurito dopo tutto quello che deve aver subito".
La mamma di Barbara
Nei corridoi al primo piano del tribunale collegiale aspetta impaziente anche Maria Concetta Cidoni, la mamma di Barbara. Sua figlia oggi ha 58 anni ed è tra gli ospiti del Cem da quando ne aveva quattro e mezzo. “Parlo sempre di Barbara per rappresentare tutti. Noi siamo l’esempio che vivere in strutture di questo tipo si può”, spiega a Fanpage.it sua mamma, Maria Cidoni, oggi ottantaseienne che da anni porta avanti le battaglie della figlia e delle famiglie del Cem. Le strutture, per funzionare, però, devono essere virtuose e ben funzionanti. “Ci danno i soldi. Noi vorremmo i servizi”. E dopo gli ultimi raccapriccianti dettagli arrivati dagli abusi, qualcosa sembra cambiare.
“È quasi un peccato che questa udienza, per un motivo così triste, si tenga così a ridosso del Natale, in questo periodo che per noi ha rappresentato una boccata d’aria fresca – spiega ancora – Nei giorni scorsi per i nostri ragazzi e le nostre ragazze sono state organizzate delle feste. Con la comunità di Sant’Egidio e con operatori volontari di Croce Rossa dell’area metropolitana di Roma Capitale. C’era anche Babbo Natale e per i nostri ragazzi e le nostre ragazze è stato bellissimo”. È stata anche organizzata una messa appositamente per loro. “Non succedeva da anni – ricorda – Sembra quasi che dalla Croce Rossa, che gestisce il centro, vogliano dare il via a una nuova fase, un nuovo inizio per recuperare quel rapporto che si è sgretolato nel tempo, ma che fino a qualche tempo fa c’era ed era molto forte”.
Ora che sono in corso due processi su questa vicenda, Maria si è costituita parte civile anche se sua figlia non compare tra gli ospiti maltrattati. Vuole esserci per vedere con i suoi occhi cosa accadeva lì dentro: “Gli interventi più toccanti sono stati presentati alla scorsa udienza, quando si è parlato anche dei video degli abusi – dice ancora Maria Cidoni – Sappiamo cosa è successo. Ma non abbiamo visto o sentito quanto accaduto. E credo che sia stato un bene per tutti noi, immagino”. E sul processo, prima di concludere, aggiunge: “Ci siamo costituiti parte civile nel procedimento per sostenere le persone offese. Per me era necessario fare questo passo. Come mamma, presidente e persona dispiaciuta dall’accaduto. Non vogliamo vendette, ma vogliamo che i nostri ragazzi stiano bene, tutelarli e fare in modo che niente di quello che è successo accada ancora, a nessuno di loro”.
di Simona Berterame e Beatrice Tominic