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C’è chi muore in ospedale di coronavirus e chi per strada: la storia di Ramadan

È stato trovato morto lunedì mattina sul marciapiede davanti alla stazione Tiburtina. Di lui hanno raccontato i volontari di Baobab Experience, attraverso un lungo post su Facebook: “La sua morte fa troppo male e ci rende colpevoli”. Il 38enne etiope aveva subito due mesi fa un ricovero per pneumotorace, dal quale non si era più ripreso.
A cura di Alessandro Rosi
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C'è chi muore in un letto d'ospedale per coronavirus e chi invece perde la vita in strada. Come Ramadan, lavoratore etiope di trentotto anni, trovato morto lunedì scorso su un marciapiede davanti alla stazione Tiburtina. La sua storia sarebbe passata inosservata, dimenticata come tante altre di quelle dei senzatetto. Ma il gruppo di volontari di Baobab Experience, associazione che fornisce accoglienza in strada, lo conosceva bene e l'ha raccontata: nei suoi lati positivi e negativi. "Ramadan non era un angelo – si legge nel post –. Attaccabrighe e piantagrane. Fumava troppo, beveva troppo". I volontari spesso si sono trovati a discutere con il trentottenne: "Pretendeva furbescamente di saltare la fila della cena" o "strappava la coperta dalle mani di qualcuno". Ma questo non gli ha impedito di legare con lui.

"Lo abbiamo conosciuto più di tre anni fa – prosegue il post – Ramadan è stato un cuoco, un barbiere, un operaio in un cantiere navale. Finché ha perso tutto, come solitamente si perde tutto". Ramadan ha provato però a riscattarsi. "I primi tempi ha cercato spasmodicamente lavoro. Inutilmente. È caduto sempre più in basso, come solitamente si cade in basso: piano piano e tutto assieme". Due mesi fa il ricovero per un pneumotorace da cui non si è più ripreso. I volontari lo descrivono "fragile, debole, dimagrito". Cercano una soluzione, ma niente. "Non è servito a nulla segnalare il caso alla Sala operativa sociale o portarlo all'Help Center", da lì rispondono: "Ci spiace ma non ci sono posti". Nonostante i loro interventi non si danno pace. "La sua morte fa troppo male e ci rende colpevoli, noi volontari, per primi: avremmo potuto e dovuto fare di più; avremmo dovuto puntare più forte i piedi, alzare più in alto la voce". E forse non sono gli unici a sentirsi colpevoli.

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