
Il dibattito sul referendum fatica a decollare, complice anche la scelta della destra al governo di puntare sull’astensione. Ma, anche dove il confronto si accende, spuntano bufale, mezze verità e fallacie logiche che finiscono per confondere, più che informare.
Per questo serve raccogliere e smontare una per una le principali obiezioni contro il referendum, con risposte documentate, dati, leggi, e link per chi vuole verificare tutto in prima persona.
Spoiler: sì, la tutela contro i licenziamenti incide anche sui salari. No, il Jobs act non garantisce più mensilità della legge Fornero. E no, Landini non incasserà un rimborso milionario in caso di quorum. Sono questioni un po’ più complesse di così. Ma, per fortuna, anche molto più chiare, una volta capite.
- 1Il benaltrismo dei salari tra licenziamento e costo del lavoro
- 2L’aritmetica delle mensilità: davvero il Jobs act dà più soldi?
- 3La Consulta ha già corretto tutto? No, e nemmeno potrebbe
- 4No, il referendum non ci porta dalle conquiste renziane al caos
- 5La verità dietro lo scoop del rimborso milionario a Landini
- 6Il cortocircuito logico sulla cittadinanza
- 7Il quorum tra vigliaccheria e sabotaggio democratico
Il benaltrismo dei salari tra licenziamento e costo del lavoro
Una delle obiezioni più ricorrenti contro il referendum è che il problema vero non sarebbe la reintegra, ma "ben altro": i bassi salari, il costo del lavoro, la produttività. È una strategia retorica nota — il benaltrismo — che sposta l’attenzione da una questione a un’altra, che però nemmeno si affronta, ma che si utilizza solo per evitare di affrontare nel merito la prima. Per evitare di incappare in questa fallacia logica, bisogna riuscire a mantenere l’attenzione sul tema iniziale: i primi due quesiti del referendum riguardano il licenziamento ingiustificato, e su questo dovremmo informarci, capire, esprimerci.
In questo caso, però, possiamo anche lasciarci distrarre dal benaltrismo sugli stipendi, perché in effetti il nesso tra tutela contro i licenziamenti e salari è tutt’altro che secondario. Al contrario: la possibilità di licenziare senza giusta causa, e senza una sanzione effettiva come la reintegrazione, riduce il potere contrattuale dei lavoratori e contribuisce anche alla compressione dei salari. Quando la protezione è più debole, quando il rischio di perdere il posto rende il lavoro precario, si finisce per essere più disponibili ad accettare condizioni di lavoro peggiori e manca la forza per rivendicare una retribuzione più alta.
C’è una seconda obiezione benaltrista che entra più nello specifico e riguarda il costo del lavoro. Negli ultimi anni è infatti passato il messaggio secondo cui i problemi del mondo del lavoro deriverebbero direttamente dall’eccessivo peso fiscale e contributivo caricato sulle imprese: se fossero ridotti i costi legati agli stipendi, si sostiene, i datori di lavoro potrebbero aumentarli. Questa teoria è però smentita dai fatti e lo dimostrano i dati Istat sul carico fiscale e contributivo. Secondo l’analisi a prezzi costanti (quindi al netto dell’inflazione), dal 2007 al 2020, i contributi sociali a carico dei datori di lavoro sono diminuiti del 4%, anche grazie a varie misure di decontribuzione (cioè lo Stato che paga i contributi al posto delle imprese). Nonostante ciò, la retribuzione netta a disposizione dei lavoratori si è ridotta del 10%. In altri termini: nonostante lo sgravio per le imprese, non solo i salari non sono aumentati, ma la retribuzione netta è addirittura calata. Confidare nella generosità delle imprese per migliorare le condizioni di lavoratrici e lavoratori è una strategia ingenua, se non connivente, visto che, con queste misure, presentate come migliorative per i lavoratori, sono aumentati non i salari ma i margini di profitto aziendali.
Il problema, ancora una volta, è il potere negoziale. Se chi lavora è precario non è in condizione di contrattare e le eventuali riduzioni del costo del lavoro si fermano prima di arrivare al salario. Insomma, non si può parlare di retribuzioni senza guardare al contesto di forza e di diritti che le rende possibili, e che comprende anche la tutela effettiva contro i licenziamenti illegittimi.
L’aritmetica delle mensilità: davvero il Jobs act dà più soldi?
C’è poi chi sostiene che, con il Jobs Act, i lavoratori ingiustamente licenziati riceverebbero più soldi rispetto a quanto previsto dall’articolo 18, modificato dalla legge Fornero. È una tesi che si regge sulla speranza che pochi andranno davvero a controllare che cosa dice la legge. E funziona, perché i testi normativi sono spesso scritti in modo tecnico e oscuro, e non è affatto strano che chi non ha conoscenze giuridiche si affidi a letture semplificate. Proprio per questo è importante fare chiarezza: basta leggere con attenzione, e fare due conti, per scoprire che le cose non stanno affatto così.
In origine, il decreto legislativo 23 del 2015 (che il primo quesito referendario intende abrogare) prevedeva un’indennità automatica (poi dichiarata incostituzionale) compresa tra 4 e 24 mensilità. Successivamente, il cosiddetto Decreto Dignità ha alzato i tetti: da 6 a 36 mensilità.
Ma davvero l’attuale articolo 18 prevede di meno? No.
Primo. Perché, a differenza di quanto stabilito dal Jobs Act, offre più possibilità di reintegrazione. Non solo nei casi di licenziamento nullo, orale o discriminatorio, ma anche in caso di "insussistenza del fatto". Questa locuzione è interpretata dai giudici in modo estensivo, comprendendo anche i casi di licenziamento sproporzionato (per i quali il Jobs Act prevede soltanto un risarcimento economico). La reintegrazione invece vale di più: impone all’impresa di riammettere il lavoratore, e ha quindi un forte effetto dissuasivo. Una sanzione puramente monetaria può essere irrilevante per un’azienda con ampi margini di profitto. Un obbligo di reintegra, invece, incide sull’organizzazione aziendale e comporta un rischio concreto per chi licenzia senza giusta causa. Proprio questo rischio rafforza la posizione del lavoratore anche nella trattativa: se il datore di lavoro vuole evitare la reintegrazione, dovrà negoziare tenendo conto di una prospettiva per lui più scomoda, in cui non ha più il pieno controllo delle conseguenze del licenziamento.
Secondo. È sbagliato confrontare le 36 mensilità del Jobs Act post-Decreto Dignità con le 24 dell’articolo 18 post-Fornero, perché nel secondo caso l’indennità si aggiunge alla reintegrazione. Ma quanto vale la reintegrazione? La legge Fornero ne ha quantificato il valore monetario: il lavoratore può rinunciarvi in cambio di una somma sostitutiva pari a 15 mensilità.
Spostando quindi l’analisi dal diritto all’aritmetica, il conto è presto fatto: 15 mensilità sostitutive della reintegrazione più un’indennità fino a 24 mensilità = 39 mensilità complessive. Un importo superiore al massimo previsto dal Jobs Act (36 mensilità), e questo senza nemmeno considerare il valore simbolico e strategico della reintegrazione.
La Consulta ha già corretto tutto? No, e nemmeno potrebbe
Il decreto legislativo 23 del 2015 è già stato corretto dalla Corte costituzionale. Tra le norme di età repubblicana, questo provvedimento del Jobs act ha il record di censure della Consulta: ben cinque sentenze di illegittimità costituzionale, con altrettante parziali abrogazioni. A queste si aggiungono altre pronunce che, pur dichiarando inammissibili le questioni sollevate, hanno sottolineato altre criticità, con l’invito al legislatore di intervenire (invito che non è però stato raccolto).
Ma, se questo provvedimento è già stato corretto così tante volte, che motivo c’è di eliminarlo del tutto?
Intanto, perché non è affatto detto che le correzioni abbiano risolto ogni problema. Nel nostro ordinamento ci possono essere (e ci sono) leggi incostituzionali, che però non sono dichiarate tali, e abrogate, perché magari la materia non è stata ancora affrontata in giudizio, o perché non è affrontabile in causa e quindi è pressoché impossibile sollevare una questione di legittimità costituzionale in via incidentale (cioè l’unico modo con cui i cittadini hanno modo di appellarsi al giudice incostituzionale). O, ancora, perché magari la norma è incostituzionale ma il ricorso presentato ha vizi di forma o è carente nella motivazione. Queste circostanze, però, non implicano che la legge in questione sia costituzionale, o anche semplicemente giusta.
In ogni caso, comunque, la Corte costituzionale non può sindacare sulla discrezionalità del legislatore, ma deve limitarsi alla correzione dei soli elementi incostituzionali. I miglioramenti non possono che passare da un intervento politico e normativo, che non rientra tra i poteri della Consulta. Una disciplina organica e funzionale dovrebbe quindi passare dall’intervento legislativo del Parlamento. Quando però la volontà politica manca, anche un quesito referendario abrogativo, pur limitato, può avere più impatto di una sentenza costituzionale.
No, il referendum non ci porta dalle conquiste renziane al caos
Alcune obiezioni al referendum fanno leva sulla cosiddetta fallacia della brutta china: un trucco retorico che consiste nel prospettare, in modo arbitrario, una catena di conseguenze disastrose che deriverebbero inevitabilmente da una certa scelta. È una tecnica ricorrente in politica, soprattutto su posizioni reazionarie: le unioni civili che disgregherebbero la "famiglia naturale", la legalizzazione della cannabis che porterebbe al collasso della società, e così via.
Nel caso del referendum, si sostiene che un eventuale sì distruggerebbe le misure sociali introdotte dal governo Renzi, o che farebbe sprofondare il diritto del lavoro nel caos: eliminando alcune leggi, si renderebbe necessario un nuovo intervento legislativo, e non è affatto detto che sarebbe migliore di ciò che si intende abrogare.
Quest’ultima obiezione è del tutto infondata. Perché un quesito sia ritenuto ammissibile, deve produrre un effetto coerente e autosufficiente: l’abrogazione proposta deve reggersi da sola, senza bisogno di norme integrative. Se vincesse il sì, le disposizioni oggetto del referendum verrebbero eliminate, ma l’ordinamento resterebbe logicamente integro. È vero che la politica potrebbe approvare riforme peggiori, ma questo rischio esiste a prescindere dal referendum.
Un altro equivoco diffuso riguarda i presunti "lati positivi" del Jobs Act. Qui c’è confusione, soprattutto rispetto al primo quesito referendario. Votando sì sulla scheda verde chiaro non si mira ad abrogare il Jobs Act, ma solo il decreto legislativo 23 del 2015.
Con "Jobs Act", durante il governo Renzi, si è voluto indicare una riforma complessiva del lavoro, articolata in un decreto legge, una legge delega e ben nove decreti legislativi. Alcuni di questi hanno introdotto novità, altri si sono limitati a riordinare la normativa esistente.
Abrogare il decreto 23/2015 significa eliminare esclusivamente la disciplina sul contratto a tutele crescenti e, con essa, le regole sui licenziamenti ingiustificati introdotte da quel provvedimento. Tutto il resto del Jobs Act resterebbe in vigore.
Non verrebbero toccati né la NASpI né la DIS-COLL, resterebbe la procedura telematica contro le dimissioni in bianco, così come le norme sul lavoro agile e sulle collaborazioni etero-organizzate. Nessun crollo dell’impalcatura sociale, solo l’eliminazione di norme che hanno ristretto i casi di reintegra in caso di licenziamento illegittimo.
Un’obiezione più politica riguarda infine gli effetti della riforma. Si dice: con il Jobs Act è aumentata l’occupazione, quindi eliminarne una parte comprometterebbe quei risultati. Ma davvero il merito di quell’aumento sarebbe la possibilità di licenziare più facilmente, o di assumere a termine senza causali?
La risposta onesta è: non si sa.
Per vari motivi. Primo, perché gli indicatori Istat considerano "occupato" chiunque abbia lavorato anche solo un’ora nella settimana di riferimento o sia temporaneamente assente: un criterio che, sotto qualunque governo, non restituisce la reale quantità e qualità del lavoro, né dice nulla sul benessere dei lavoratori.
Secondo, perché le dinamiche dell’occupazione dipendono da fattori macroeconomici spesso indipendenti dalla normativa: la crisi del 2008 o la pandemia del 2020 avrebbero colpito il mercato del lavoro a prescindere dal sistema vigente, così come una fase di ripresa economica può favorire l’occupazione anche senza meriti specifici del governo in carica.
Infine, perché l’introduzione del contratto a tutele crescenti fu accompagnata da massicce decontribuzioni: lo Stato si è accollato parte dei contributi previdenziali per i nuovi assunti, riducendo artificialmente il costo del lavoro per le imprese e incentivando le assunzioni.
La verità dietro lo scoop del rimborso milionario a Landini
Uno degli argomenti più ripresi negli ultimi giorni è quello secondo cui la CGIL, e in particolare Maurizio Landini, avrebbero un interesse economico diretto nel successo del referendum sul lavoro. Secondo alcune ricostruzioni giornalistiche, la vera posta in gioco sarebbe il "premio" di 2,5 milioni di euro che lo Stato verserebbe in caso di raggiungimento del quorum. Ma il racconto è fuorviante su più livelli.
C’è anzitutto da chiarire che il rimborso non andrebbe né a Landini personalmente né alla CGIL in quanto tale. A beneficiare dell’eventuale contributo pubblico sarebbe il comitato promotore del referendum, che è un soggetto distinto, benché composto anche da rappresentanti del sindacato.
C’è poi una rimozione evidente: la democrazia ha un costo. Anche i partiti politici ricevono risorse pubbliche, benché il finanziamento diretto sia stato formalmente abrogato. Nel 2022, ad esempio, la Camera e il Senato hanno trasferito complessivamente oltre 53 milioni di euro ai gruppi parlamentari. Il rimborso elettorale previsto per i promotori di referendum che raggiungono il quorum non è dunque un’anomalia, ma uno degli strumenti con cui la Repubblica sostiene la partecipazione democratica. Questa partecipazione, peraltro, non è finalizzata all’elezione di rappresentanti, da cui possono derivare incarichi o remunerazioni: si limita a consentire ai cittadini di esprimersi su singole norme, che vengono mantenute o abrogate. I promotori non conseguono da ciò un potere diretto o un ritorno personale.
Sul tema del costo della democrazia vale la pena soffermarsi: l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti è stata uno degli esiti più visibili di una stagione populista che ha cavalcato l’antipolitica con la promessa di una democrazia "a costo zero". Ma il risultato non è stato un sistema più equo, trasparente o vicino ai cittadini. È stato piuttosto un sistema in cui chi rappresenta gli interessi dei più poveri deve autofinanziare la propria voce, mentre chi fa gli interessi delle classi dominanti può contare sul sostegno di grandi donatori, lobby economiche o campagne mediatiche milionarie e parte quindi in vantaggio.
Sostenere economicamente i processi democratici, compresi i referendum, non è allora un privilegio, ma una garanzia: che a contare non siano solo le risorse di chi ha già potere, ma anche la possibilità per chi rappresenta i diritti sociali, i lavoratori e le minoranze di far sentire la propria voce.
Tra l’altro, per il referendum sul lavoro del 2017 (dichiarato ammissibile e poi annullato alla luce della frettolosa abolizione dei voucher da parte del governo Gentiloni), la CGIL aveva già investito, come si legge nei suoi bilanci, circa 2,3 milioni di euro, senza ricevere nulla in cambio. Non si tratta quindi di una manovra per "lucrare" sul voto, ma di un meccanismo pubblico che serve a garantire che anche soggetti non partitici possano organizzare campagne nazionali, sostenendone i costi.
In ogni caso, non bisogna perdere di vista il punto centrale: si vota sul merito dei quesiti, non per simpatia o dispetto verso chi li ha proposti. Screditare i promotori per delegittimare i contenuti è il più vecchio trucco per evitare di entrare nel merito delle questioni. E rifiutare di partecipare al voto solo per impedire al comitato referendario di ricevere un rimborso pubblico sarebbe come sperare nel fallimento dell’azienda in cui si lavora così da impedire al titolare di ottenere un profitto: si finisce per danneggiare sé stessi pur di colpire qualcun altro.
Il cortocircuito logico sulla cittadinanza
Lo stesso riflesso che porta a rinunciare a un diritto pur di impedire un vantaggio ad altri sembra riemergere anche nelle critiche al quesito sulla cittadinanza. La proposta referendaria prevede di ridurre da dieci a cinque anni il requisito di residenza legale e continuativa per poter presentare domanda, lasciando invariati gli altri criteri: conoscenza della lingua italiana, assenza di precedenti penali, capacità di mantenersi e di contribuire fiscalmente. Nulla di automatico o immediato, insomma.
Si potrebbe discutere a lungo sull’idea che la cittadinanza debba essere "meritata": la maggior parte di chi oggi è cittadino italiano lo è per nascita, non per merito. Anch’io lo sono, e non ho dovuto dimostrare nulla a nessuno. Ma lasciamo pure da parte l’etica, e passiamo alla logica.
C’è chi sostiene che i quesiti sul lavoro siano usati come traino per quello sulla cittadinanza, costringendo gli elettori a un sì collettivo e inconsapevole. È un’obiezione che sottovaluta l’intelligenza di chi vota: ogni quesito ha una scheda distinta, si può dire sì, no, o addirittura ritirare selettivamente le schede. Nessun trucco, nessun complotto. Semplicemente, le raccolte firme hanno avuto tempi compatibili, e accorpare il voto è una scelta logistica ed economica, già vista in molti altri casi. Nel 1981 si votava contemporaneamente su aborto, ergastolo e porto d’armi; nel 1987, su centrali nucleari e responsabilità civile dei magistrati. Nessun dubbio di manipolazione dell’elettorato. Perché oggi dovrebbe essere diverso?
Tra l’altro, cittadinanza e lavoro non sono mondi separati. Anzi. È singolare battersi per la dignità del lavoro e accettare, nello stesso momento, che migliaia di lavoratori stranieri vivano in una precarietà radicale, ben più profonda, che danneggia anche i lavoratori italiani. Gli stranieri che in Italia lavorano, pagano le tasse, rispettano le leggi, devono comunque avere un permesso di soggiorno da rinnovare periodicamente. Uno dei requisiti per ottenere e rinnovare il permesso di soggiorno è proprio il lavoro: significa che un licenziamento può costare non solo il reddito, ma anche il diritto a restare in Italia. Di fronte a questa minaccia, gli spazi di rivendicazione si restringono e i lavoratori stranieri finiscono per diventare, loro malgrado, concorrenza sleale. Regolarizzare stabilmente queste persone, garantendo la possibilità di richiedere la cittadinanza prima, significa tutelare anche i lavoratori italiani e togliere un esercito di riserva a chi preferisce manodopera silenziosa e obbediente.
Un’altra obiezione frequente è che si voglia "regalare" la cittadinanza per avere più voti. Al di là del fatto che, visti i requisiti e la trafila burocratica, la procedura di ottenimento della cittadinanza è tutt’altro che un regalo, l’idea che tutti gli stranieri voterebbero allo stesso modo è rivelatrice. Rivela che non si parla di persone, ma di categorie astratte, indistinte. Si presuppone che chi nasce altrove non abbia idee proprie, convinzioni, differenze: uno stereotipo di alieno privo di identità. Paradossalmente, si arriva a sostenere che questi cittadini potenziali sarebbero insieme culturalmente arretrati e politicamente allineati al progressismo.
Il quorum tra vigliaccheria e sabotaggio democratico
Infine, una delle operazioni più subdole – e più riuscite – della propaganda contro il referendum: trasformare un’occasione di partecipazione democratica in un sospetto, una trappola, una manipolazione. Basta condividere un articolo o un video informativo per vedere comparire commenti e card con slogan prefabbricati, disegni di pecore e caricature da meme: "Io vado al mare!". Sono scorciatoie mentali, riflessi automatici per evitare il confronto e il merito. Ma così si calpesta il principio stesso della sovranità popolare.
Ed è paradossale che proprio chi invoca continuamente l'elettorato come fonte di legittimità rifiuti il giudizio popolare quando questo può davvero incidere su norme che riguardano lavoro, diritti e comunità. Se la volontà dei cittadini conta davvero, se la sovranità popolare è sacra, non si dovrebbe temere di interpellarla.
Invece, si preferisce soffocare il dibattito prima ancora che le persone si informino, svuotando il referendum di senso. È un disinnesco sottile che passa attraverso l’invito all’astensione: senza spiegazioni, senza analisi, senza affrontare davvero i quesiti.
Non è solo tifo politico o ignoranza: è un sabotaggio della democrazia diretta. L’abbiamo visto con Craxi, con i DS, con Renzi per il referendum sulle trivelle. Oggi lo vediamo di nuovo, con La Russa che invita apertamente a non votare.
Ma a La Russa non cambierebbe nulla se fosse ripristinata la reintegrazione per licenziamento ingiustificato. Sono gli elettori del suo partito, invece, che dovrebbero interessarsene. Perché allora raccontare che si tratta solo di una resa dei conti a sinistra? Perché ridurre tutto a una questione di partiti, quando le leggi valgono per tutti, non solo per chi ha votato PD o è iscritto alla CGIL?
Le leggi sul divorzio e sull’aborto sono ancora in vigore perché il popolo le ha difese, informandosi, discutendo, recandosi ai seggi per votare no. Avrebbe potuto disertare le urne e sperare nel mancato raggiungimento del quorum, invece partiti e movimenti avevano chiara la posta in gioco: sapevano che la democrazia non si subisce, si esercita.
Quanto è vigliacco oggi fare leva sulla fiducia dei propri elettori per convincerli a non partecipare. Dire a chi ha votato la Lega o Fratelli d’Italia – magari anche per reazione alle forzature del passato – di restare a casa è un inganno, una forma di paternalismo mascherato da strategia. È chiedere ai propri sostenitori di non farsi domande, quando invece potrebbero avere tutto l’interesse a votare diversamente da chi li rappresenta.
A chi si chiede se andare a votare, va allora ricordato che questo referendum non è un voto di fiducia verso chi lo ha promosso, né un’occasione per punire qualcuno. Non è un plebiscito, né una conta tra sinistra e destra. È un’opportunità concreta per esprimersi su leggi precise che toccano la vita reale delle persone. La domanda è semplice e diretta: vuoi che queste norme siano eliminate, oppure no? Ed è una domanda che, qualunque sia la risposta, sottende un’affermazione: che il voto conta, e vale più del silenzio.
