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La Corte Costituzionale ha smontato il Jobs act di Renzi (e anche il decreto Di Maio)

La Consulta boccia l’indennizzo automatico basato sulla sola anzianità di servizio: non è un rimedio efficace contro i licenziamenti ingiustificati, non ripara il danno ai lavoratori né dissuade le imprese. Ma nemmeno la proposta Di Maio garantisce il diritto al lavoro degli assunti con il contratto a tutele crescenti.
A cura di Roberta Covelli
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È stata depositata ieri la sentenza motivata con cui la Corte Costituzionale censura l’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 23 del 2015, una delle norme centrali del cosiddetto Jobs Act. Secondo la Consulta, la previsione di un indennizzo automatico legato alla sola anzianità di servizio è illegittima perché non rispetta gli articoli 3, 4, 35, 76 e 117 della Costituzione, oltre all’articolo 24 della Carta sociale europea. La Corte Costituzionale era stata chiamata a decidere da un giudice del Tribunale di Roma che, dovendo applicare la norma in questione e avendo dubbi sulla sua costituzionalità, ha richiesto il parere della Corte, promuovendo quindi un giudizio in via incidentale. Il giudice romano doveva infatti decidere del caso di F.S., lavoratrice con un contratto a tutele crescenti a cui, a pochi mesi dall'assunzione, era stato intimato un licenziamento per non meglio specificate "problematiche di carattere economico-produttivo". Quando, perso il lavoro, F.S. fa ricorso contro il licenziamento che ritiene ingiustificato, l’azienda rimane contumace cioè non risponde alle accuse, né si costituisce al processo. Decidendo di non presentarsi davanti al giudice, l'impresa non contesta le prove della mancata giustificazione del licenziamento, accettando quindi la massima sanzione prevista dall'art. 3, co. 1, del decreto legislativo 23/2015: corrispondere alla lavoratrice un indennizzo di quattro mensilità (calcolate sull'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto).

Il decreto legislativo 23 del 2015 è il provvedimento della riforma del lavoro promossa dal governo Renzi che istituisce il contratto a tutele crescenti, cioè il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato che si applica a operai, impiegati e quadri assunti dopo il 7 maggio 2015. L’articolo 3 disciplina i casi di licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo, prevedendo al primo comma, come regola generale, un rimedio monetario calcolato in base all’anzianità di servizio: per ogni anno di lavoro nell’impresa, l’indennizzo in caso di licenziamento ingiustificato aumenta di due mensilità, da un minimo di quattro fino a un massimo di ventiquattro (ora da sei a trentasei, dopo le modifiche del Decreto dignità).

In questo modo, il rimedio è la "liquidazione legale forfettizzata e standardizzata […] ancorata all’unico parametro dell’anzianità di servizio", senza quindi alcuna discrezionalità del giudice nel valutare l’indennizzo più equo. Se F.S. fosse stata assunta prima del 6 maggio 2015, il rimedio sarebbe stato deciso in base all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, come modificato dalla Legge Fornero: la lavoratrice avrebbe quindi potuto ambire alla reintegrazione con l’aggiunta di un’indennità di massimo dodici mensilità, qualora il giudice avesse ritenuto non ricorressero gli estremi del giustificato motivo, o, in caso di minor gravità, a un’indennità onnicomprensiva quantificata dal giudice tra le dodici e le ventiquattro mensilità (calcolate sull’ultima retribuzione globale di fatto). Con le norme del contratto a tutele crescenti, invece, alla lavoratrice ingiustamente licenziata sarebbero spettate quattro mensilità, senza alcuna valutazione equitativa da parte del giudice.

È proprio questo automatismo a essere incostituzionale secondo le motivazioni della Corte. L’indennizzo previsto qualora si accerti che il licenziamento è privo di giusta causa o di giustificato motivo è un rimedio che dovrebbe avere una doppia funzione: da un lato la riparazione del danno subito dal lavoratore, dall’altro un mezzo di dissuasione rispetto a comportamenti scorretti. Il recesso dal rapporto professionale deve infatti essere bilanciato tra la libertà di iniziativa economica privata prevista per l’imprenditore e il diritto al lavoro, da cui discende la garanzia per il lavoratore di non subire licenziamenti irragionevoli o ingiustificati. In questo senso, nella sentenza della Consulta, si sottolinea come il licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo, pur potendo risolvere il rapporto lavorativo, resta comunque un atto illecito e quindi da sanzionare. Ma un indennizzo automatico basato sulla sola anzianità di servizio non è una sanzione efficace.

Secondo la Consulta, la previsione del Jobs act contrasta innanzitutto con il principio di ragionevolezza: la Corte rileva infatti "l’inidoneità dell’indennità medesima a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente".

Anche il riferimento alla sola anzianità di servizio è censurato dalla Corte, che segnala come esistano molteplici fattori che influiscono sul pregiudizio subito dal lavoratore, oltre che sull’efficacia della sanzione come deterrente per comportamenti scorretti dell'impresa: oltre all’anzianità di servizio, sono rilevanti anche parametri come il numero di dipendenti occupati nell’azienda, le dimensioni dell'attività economica, il comportamento e le condizioni delle parti. Predeterminare un indennizzo automatico, ignorando questi fattori, impedisce la discrezionalità del giudice che -precisa la Consulta- risponde "all’esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore".

La liquidazione standardizzata finisce anche per essere in contrasto con il principio di uguaglianza, perché tratta allo stesso modo situazioni tra loro anche molto diverse: l’uguale trattamento formale, ignorando le diversità di contesto, aumenta le disuguaglianze, allontanando il diritto da quella pari dignità sociale solennemente affermata dalla Costituzione.

Così, nell’ignorare il danno subito dal lavoratore e nel non sanzionare adeguatamente l’atto illecito del licenziamento ingiustificato, privando il giudice della possibilità di adattare al caso concreto le scelte del legislatore, l’indennizzo standardizzato finisce per svuotare di senso il diritto al lavoro stesso, uno dei fondamenti della Repubblica. La tutela effettiva dai licenziamenti ingiustificati, non garantita dal rimedio previsto dal Jobs act, rappresenta infatti uno degli strumenti per assicurare altri diritti del lavoratore. Il lavoro è infatti emancipazione individuale e collettiva, strumento di sviluppo della persona e di partecipazione al contesto sociale, oggetto di scambio economico eppure forma di espressione della propria identità, mezzo di dignitosa sussistenza alimentare e realtà di elevazione spirituale: questo è il lavoro delineato dalla Costituzione. Ridurre le garanzie contro il licenziamento ingiustificato, o svuotarne l’efficacia, significa ricondurre il rapporto di lavoro alla dimensione dei rapporti di forza economici, con tutti gli squilibri che l’ordinamento dovrebbe pareggiare.

Insomma, solenne bocciatura per il Jobs act di Renzi? In parte. Nonostante il giudice del processo romano abbia segnalato alla Corte costituzionale ampie censure, citando per intero gli articoli 2, 3 e 4 del decreto 23 del 2015, una volta sollevata la questione di legittimità in via incidentale, la Consulta può decidere solo sulle norme effettivamente rilevanti nel processo di partenza, quindi in questo caso limitatamente al primo comma dell’articolo 3. La norma, peraltro, è stata di recente modificata dal Decreto Dignità, che ha aumentato i limiti minimi e massimi dell'indennizzo, rispettivamente da quattro a sei e da ventiquattro a trentasei mensilità. La sentenza sottolinea però che, con la riforma, "non è stato intaccato il meccanismo contestato, sicché non mutano i termini essenziali della questione": il rimedio indennitario resta comunque rigido e automatico e, in quanto tale, incostituzionale.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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