
Starete leggendo molto in queste ore sull’elezione del nuovo papa, il cardinale statunitense Robert Francis Prevost, che ha scelto il nome di Leone XIV. Tra gli accenni biografici e le prime considerazioni sul breve discorso tenuto dopo la nomina a successore di Pietro o i passaggi della sua prima omelia, che siate credenti o meno, probabilmente state cercando di formarvi un’opinione e di provare a capire “come collocare” il primo papa statunitense. In effetti, i tempi sono piuttosto strani e anche questa elezione sembra del tutto peculiare, per quanto non si possa parlare di una vera e propria sorpresa, considerando che il cardinale di formazione agostiniana fosse comunque inserito nella rosa “ampia” dei papabili. Non fra i primi cinque nomi, magari, ma non del tutto un outsider.
Uno degli elementi di analisi che maggiormente ritorna sulle pagine dei quotidiani e nella copertura mediatica, dunque, è quello del posizionamento politico del nuovo Pontefice e di come la sua piattaforma ideologica potrebbe incidere sul contesto globale. Sgombrerei subito il campo dagli equivoci: non ha molto senso adoperare categorie tradizionali della politica (men che meno di quella italiana), usando con grande leggerezza concetti come destra e sinistra. Sarebbe un errore concettuale, che potrebbe portarci a conclusioni errate.
Allo stesso modo, bisognerebbe evitare il cherry picking, prendere magari una mezza dichiarazione di Prevost, decontestualizzarla e assolutizzarla per poi affibbiargli una posizione, una simpatia, una consonanza di vedute con questo o quel politico. Servirebbe sempre grande cautela nello scendere su questo campo di analisi, in ragione della peculiarità del ruolo (parliamo sempre del capo della Chiesa cattolica, con tradizioni, obblighi e credenze millenarie) e delle specificità del momento storico che viviamo (ad esempio, i rapporti con i grandi della Terra si costruiscono e sono funzionali a scelte specifiche che ancora non conosciamo). Pur tuttavia, avere delle coordinate per leggere la scelta dei cardinali è di un certo interesse. E in questa puntata della nostra Evening Review, la newsletter per gli abbonati a Fanpage.it (per ora la leggete gratis, ma ci si iscrive qui), proveremo a fare qualche passo in avanti.
In queste ore ci si sta scervellando sulle etichette per Prevost, speculando su quali possano essere quelle più adatte a descriverne le idee, l’approccio, le proposte, la linea futura. Prima del Conclave già si ragionava in questi termini, usando per i potenziali candidati termini come “progressisti”, “riformisti”, “conservatori”, “moderati” (gli addetti ai lavori erano più precisi, e usavano categorie come “sinodali”, “lealisti”, “tradizionalisti” eccetera). Prevost era considerato un “riformatore dell’area bergogliana”, non distante da altri nomi più quotati, come Parolin e Tagle, e certamente più moderato di altri come Zuppi o il suo compatriota McElroy. Che riformatori, progressisti e moderati sinodali avessero un ampio margine e potessero “scegliere” il successore di Bergoglio era cosa nota, probabilmente però Prevost è riuscito a porsi come nome di mediazione, in grado di non scontentare le altre anime della Chiesa. Almeno così sembrerebbe essere andata dalla rapidità della sua elezione. Sicuramente è un'elezione in qualche modo "preparata" da Francesco, che ha promosso Prevost e gli ha affidato ruoli di grande responsabilità, costruendogli nel tempo il profilo e il consenso necessari per ottenere l'investitura.
Dunque, un papa certamente vicino all’impostazione di Bergoglio, ma non così vicino alle aspirazioni più radicali di altre anime della Chiesa?
È un dibattito aperto sui giornali italiani di oggi, con analisi di un certo interesse.
Il ritratto che ne fa Iacopo Scaramuzzi su Repubblica ci aiuta a definire meglio il punto di cui stavamo parlando, in particolare per questo passaggio:
“Se la scelta del nome è già un programma, Francis Robert Prevost ha appena annunciato che sarà un papa attento alle questioni sociali, ai drammi del suo tempo, ai temi del lavoro e della povertà. Robert Prevost è un religioso agostiniano, un ordine noto per non essere una fucina di ultraprogressisti. La sua cultura teologica precisa e approfondita è emersa fin dal primo discorso che ha pronunciato in occasione della benedizione di ieri sera. Qualcosa di diverso, però, dicono i suoi legami. Fu ordinato sacerdote da Monsignor Jean Jadot, belga, esponente progressista della curia romana dell’epoca. A Chicago ha un ottimo rapporto con il cardinale Blaise Cupich, porporato lontanissimo da Donald Trump. Ha partecipato alle assemblee sinodali fortemente volute da Francesco e nella sua benedizione dalla loggia centrale di San Pietro ha citato l’esperienza sinodale: “A tutti voi, fratelli e sorelle di Roma, d’Italia e di tutto il mondo, vogliamo essere una Chiesa sinodale, una Chiesa che cammina, una Chiesa che cerca sempre la pace e che cerca sempre la carità.”
La questione del rapporto con Donald Trump occupa naturalmente grande spazio sui giornali e nella copertura mediatica. C'è chi ripesca vecchi tweet, chi diffonde ipotesi sulla partecipazione del Pontefice a qualche evento elettorale del passato, chi parla di orgoglio americano e chi è già pronto a scommettere su quando Leone XIV ci regalerà una foto iconica come quella di Bergoglio.
Alberto Simoni, corrispondente da Washington de La Stampa, descrive un quadro che vale la pena leggere:
«Dal nuovo Vaticano sconti sulla politica delle deportazioni e sulla gestione dell’immigrazione non sono previsti. L’ultima traccia online del neo-papa risale a quando Trump incontra il presidente del Salvador, Bukele, nello Studio Ovale. I due sorrisero dinanzi alle domande su Abrego Garcia. L’immigrato salvadoregno residente in Maryland e deportato il 15 marzo per un errore amministrativo. Un commentatore cattolico scrisse: “Non è disturbata la tua coscienza? Come puoi stare in silenzio?”. Frasi critiche nei confronti di quella globalizzazione dell’indifferenza denunciata da Bergoglio, che sono state ripostate da Prevost. Abbastanza per far scattare in piedi anticattolici o semplicemente i fan sguaiati dell’amministrazione, come Laura Loomer, attivista e complottista, che ha particolare ascendente su Trump. Ebbene, in un post, Loomer ha definito naturalmente ‘antimaga’ e ‘woke’ il Prevost: un altro papa dei confini aperti, un altro marxista.»
Ora, definire marxista Prevost è piuttosto ridicolo e qualcuno ha fatto notare il riferimento a Leone XIII, un papa che espresse una dura condanna alla "lotta di classe", ma contemporaneamente ridefinì la dottrina della Chiesa con una apertura di sostanza alle istanze socialiste sui temi del lavoro, del giusto compenso e della limitazione degli abusi dei capitalisti. Tuttavia, la domanda su quanto il nuovo Vescovo di Roma proseguirà sulla strada di Francesco non è banale. Marco Damilano su Il Domani è convinto, ad esempio, che nei rapporti con la nuova amministrazione statunitense non si discosterà dalla linea di Bergoglio:
Un papa agostiniano che raccoglierà la lettera di Francesco ai vescovi americani: «Il vero ordo amoris che occorre promuovere costruisce una fratellanza aperta a tutti, senza eccezioni», scrisse, rispondendo direttamente – senza nominarlo – al cattolico vicepresidente americano J.D. Vance, "amante dei vicini, familiari e connazionali". Con l’invito a schierarsi, per tutti i fedeli della Chiesa Cattolica e per tutti gli uomini e le donne di buona volontà: «A non cedere a narrative che discriminano e causano inutili sofferenze ai nostri fratelli e sorelle emigranti e rifugiati, a costruire ponti che ci avvicinino sempre più, a evitare muri d’ignominia e a imparare a dare la nostra vita così come l’ha data Gesù Cristo, per la salvezza di tutti.»
È singolare invece il modo in cui vengono affrontate le questioni sui giornali della destra. Da una parte si scorgono i primi indizi di una contestazione futura (Belpietro titola il suo pezzo sui "grandi fardelli" del nuovo Pontefice, finanze e scandali legati agli abusi), dall'altra il tentativo di rintuzzare la tesi che sia stato eletto un papa "non tradizionalista" (Cerno su Il Tempo scrive che Prevost ha fatto "un grande lavoro per rinsaldare i rapporti tra Trump e i latinoamericani"… Ma onestamente non sappiamo dirvi quale sia la sua fonte). C'è Socci su Libero che si dice convinto che "possa riportare la Chiesa in acque tranquille, dopo una stagione di allineamento all'ideologia woke e al nuovo ordine mondiale fondato dai democratici sulla follia green", spingendosi addirittura fino a scrivere che "sulla pace è in sintonia con Donald Trump". Mentre Sallusti su Il Giornale è giustamente più prudente e si limita a dire che "il papa è come i genitori e non si sceglie", rammaricandosi del fatto che non sia stato eletto un italiano.
Ecco, mi sentirei di dire che, al netto di alcuni punti fermi (l'approccio caritatevole, la ricerca della pace, l'attenzione ai temi sociali), sono tante le incognite sulle scelte che farà il nuovo Pontefice. Serve tempo, per analisi di senso e di prospettiva. Tempo che sentiamo di non avere. Perché, in realtà, è probabile che abbiamo un così grande bisogno di certezze o almeno di qualche appiglio, che proiettiamo le nostre ansie e paure anche laddove non ce ne sarebbe bisogno. Vogliamo spiegazioni rapide e comode. Su come funzioni questo meccanismo è interessante leggere Marco Gerardo sull’Avvenire:
«Ci sono le attese dei credenti, che, attraverso i cardinali, hanno chiesto soprattutto unità e un pastore per cercarla. Ci sono le riforme e il sinodo da completare, il Giubileo da celebrare. Ci sono le attese del mondo, che solo dieci giorni fa ha visto i cosiddetti potenti riuniti a Roma. Un mondo così diviso, lacerato e rigonfio di violenza. Un mondo impaurito che pare avere un gran bisogno di un papa. “Senza paura”, ha ripetuto due volte Prevost. Ciascuno si aspetta qualcosa da una delle poche autorità morali rimaste in quest’epoca senza autorevolezza. Ma le domande dipendono dagli sguardi che le accompagnano. E non sempre sono sguardi limpidi. Anzi, troppe volte interessati. Sguardi di sorvolo che proiettano etichette, categorie o richieste in proprio. Forse conviene assumere il vedere dritto dei semplici. Più che quello di chi già sa o crede di sapere. E fidarsi.»
Ecco, fidarsi forse no. Ma attendere di conoscere, studiare e capire, prima di piantare bandierine da seguire poi in modo acritico, forse è la scelta più saggia.
