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Perché non si deve mai diffondere il video di uno stupro, tantomeno in campagna elettorale

Il video dello stupro avvenuto per strada a Piacenza, ricondiviso anche da Giorgia Meloni in campagna elettorale, non andava diffuso. Non c’era alcun motivo ragionevole. A cosa serve assicurare giustizia alla vittima o “chiederle scusa a nome delle istituzioni” se contemporaneamente la si espone alla reiterazione del suo trauma, poche ore dopo i fatti?
A cura di Jennifer Guerra
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Susan Brison è una filosofa statunitense. Nel 1990, mentre si trovava in Francia, è stata vittima di un brutale stupro e tentato omicidio mentre faceva una passeggiata in campagna. Dopo essere tornata negli Stati Uniti, Brison notò come nessuno dei suoi parenti o amici avesse avuto il coraggio di parlarle di quello che le era accaduto. Questo silenzio la portò a sua volta a nascondere quanto le era successo: “Nei mesi successivi, avevo paura che le persone lo scoprissero, avevo paura delle loro reazioni e della loro incapacità di rispondere. Avevo paura che il mio lavoro fosse screditato, ritenuto troppo fazioso o, ancora peggio, non del tutto ‘filosofico’”. Intorno allo stupro infatti, scrive Brison, accade una cosa strana: è un fatto “oscurato dalla sua mondanità”. Tutti lo vediamo, ma fingiamo che non esista, a meno che non torni utile a qualcuno o a qualcosa.

Per rimediare qualche click, per fare campagna elettorale, per scrivere un post pieno di retorica e generica condanna. Per queste ragioni diverse testate hanno postato il video di uno stupro avvenuto in strada a Piacenza, video che è stato anche ricondiviso da Giorgia Meloni in un post dove ha sottolineato il fatto che l’autore della violenza fosse un richiedente asilo, mentre Matteo Salvini ha postato un fermo immagine, facendo le stesse puntualizzazioni.

Non c’era alcun motivo ragionevole per diffondere quel video: non serve a incastrare il colpevole, che è stato arrestato in flagranza, non serve a identificare la vittima (semmai a violarne la privacy) e soprattutto non serve a sensibilizzare sul tema della violenza. I dati sulla diffusione di questo fenomeno parlano da soli e, se non fossero sufficienti, esistono moltissime testimonianze su cosa significa sopravvivere a una violenza. Tutte diverse, come sono le forme di violenza, ma tutte caratterizzate da un unico filo rosso: sono tutte state pronunciate dalle donne che le hanno subite, che hanno preso parola, che hanno deciso che erano pronte per condividere la propria storia.

La nostra cultura è piena di storie di stupro, dalla mitologia, al cinema, alle barzellette da spogliatoio. Ma tutti questi racconti non servono a concettualizzare le ragioni della violenza o a prepararci ad affrontarla, quanto più a soddisfare un voyeurismo morboso. In nessuno di essi si assume la prospettiva della vittima, ma anzi c’è sempre uno sguardo esterno, che con le più assurde giustificazioni ci rassicura che è giusto che vediamo quella violenza: serve ora a dimostrare qualcosa, ora a immedesimarci, ora a metterci in guardia. Ma la violenza non ha mai un’utilità. Intanto, in questa stratificazione di discorsi, le donne spariscono, come è sparita la vittima dei fatti di Piacenza, pericolosamente esposta e allo stesso tempo invisibile. A cosa serve assicurarle giustizia o “chiederle scusa a nome delle istituzioni” se contemporaneamente la si espone alla reiterazione del suo trauma, poche ore dopo i fatti?

Lo sanno, le testate e i politici che si stanno servendo di questo video, che ci possono volere mesi, a volte anni, prima di ammettere a se stesse di aver subito una violenza, prima di smettere di colpevolizzarsi, prima di smettere di avere dei flashback, prima di riuscire a raccontare quanto subito? Per quanto tempo la donna ritratta in quel video dovrà evitare di accendere la tv, leggere un giornale o aprire un social network senza dover rivivere, correlato da mille parole superflue, quello che probabilmente resterà il momento più traumatico della sua esistenza? E non serve a nulla ora, togliere frettolosamente il video o fare dichiarazioni di intenti a posteriori: quel video non andava diffuso, perché quello che accade in quel video non è oggetto di chiacchiere da bar o di opinione, non è qualcosa che dobbiamo vedere per poterne parlare.

È anzi il fatto che non ne parliamo mai nei termini giusti che ci dà l’impressione che sia giusto o addirittura necessario vedere la sofferenza altrui, incastrata tra un tweet polemico e una foto in vacanza. Non serve un video per ricordare alle donne che sono sempre esposte alla violenza: basterà loro uscire di casa. Non serve un video per ricordare agli uomini di non commettere violenza: basterà loro essere esseri umani.

“Perché” è la domanda più difficile e comune che una vittima di violenza possa farsi: perché a me? Perché l’ha fatto? Perché non ho cambiato strada? Non c’è una risposta a questo quesito, ma la peggiore risposta che possa esserci – oggi lo sappiamo – è “perché qualcuno potesse guadagnarci un like”.

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Jennifer Guerra è nata nel 1995 in provincia di Brescia e oggi vive in provincia di Treviso. Giornalista professionista, i suoi scritti sono apparsi su L’Espresso, Sette, La Stampa e The Vision, dove ha lavorato come redattrice. Per questa testata ha curato anche il podcast a tema femminista AntiCorpi. Si interessa di tematiche di genere, femminismi e diritti LGBTQ+. Per Edizioni Tlon ha scritto Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (2020) e per Bompiani Il capitale amoroso. Manifesto per un Eros politico e rivoluzionario (2021). È una grande appassionata di Ernest Hemingway.
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