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Opinioni
Cambiamenti climatici

Perché nessun partito sta affrontando il cambiamento climatico nel modo giusto

Dalla salute alle migrazioni, dall’economia al sociale, tutti i temi oggetto di questa campagna elettorale sono influenzati dal cambiamento climatico. Eppure quasi tutte le forze politiche sembrano prendere sottogamba la minaccia. E continuano a sostenere che non si possa vivere senza fonti fossili.
A cura di Fabio Deotto
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È la prima campagna elettorale estiva nella storia della Repubblica Italiana, e si apre in piena emergenza climatica, mentre l’Europa va a fuoco e l’Italia boccheggia in una siccità epocale. Eppure, ad ascoltare la pioggia di dichiarazioni che si è abbattuta sugli organi di informazione a partire dal 21 luglio, si fatica a distinguere questa campagna elettorale da quelle degli ultimi vent’anni.

Si parla di costo della vita, di salario minimo, di costo del lavoro, di crisi energetica e di crisi alimentare, di migrazione, di guerra, di crisi sanitaria: tutti ambiti su cui l’emergenza climatica esercita una pressione sempre maggiore, eppure tra i partiti dell’agone politico quasi nessuno sembra volerne prendere atto. Da un lato c'è chi snocciola la solita litania di risposte semplici, cercando di blandire chi esce esausto e sfiduciato da due anni di pandemia, dall'altro invece chi si limita a martellare i campanacci d'allarme, invocando voti utili e nasi turati, senza preoccuparsi di produrre non dico una visione coraggiosa, ma almeno tracciare un minimo di direzione che invogli un potenziale elettorato a recarsi alle urne. Questa incapacità è la spia di un problema strutturale, sicuro; di una classe politica ancorata schemi di pensiero vecchi di trent'anni, senz'altro; ma soprattutto – e questo è il vero problema – è la dimostrazione di come anche questa generazione politica, che al netto di alcuni irremovibili negli ultimi anni ha subito un certo ricambio, sia comunque culturalmente impreparata a cogliere la complessità e le interconnessioni della congiuntura contemporanea.

Mentre un miliardario di ottantatré anni ancora promette pensioni a mille euro e un milione di alberi piantati l'anno (dimenticando che il PNRR già ne prevede 6 milioni in tre anni), lunedì gli attivisti di Extinction Rebellion si sono arrampicati sul palazzo della Regione Piemonte per protestare contro l’inazione climatica; solo pochi giorni prima due membri di Ultima Generazione hanno organizzato una protesta pacifica incollandosi al vetro della Primavera del Botticelli, e sono stati subito bollati come barbari facinorosi senza alcun rispetto per l'arte. Ma questi ragazzi sono gli stessi che da anni inondano le piazze di tutto il mondo, portando avanti una paziente e trasversale opera di sensibilizzazione e informazione, creando una pressione che ha reso possibili le cause climatiche (vinte) contro Shell e il governo tedesco. Nel frattempo l'industria fossile continua a incassare ogni giorno centinaia di miliardi di dollari in sussidi statali, accelerando una crisi climatica che ogni anno, tra ondate di caldo, collassi agricoli ed eventi estremi, causa centinaia di migliaia di morti; eppure quasi nessuno, anche tra le fila di quelli che si definiscono “progressisti”, si azzarda a squalificare l’operato degli alti funzionari del comparto fossile. C'è un motivo se i candidati più in vista evitano di prendere prende di petto la questione, limitandosi a proporre di limare gli angoli di un sistema ormai vicino al collasso: si chiama fossilismo, ed è fondamentale che la politica partitica cominci ad occuparsene.

Di cosa parliamo quando parliamo di fossilismo

Chiunque si sia occupato di crisi climatica in modo attivo negli ultimi vent’anni almeno una volta si sarà sentito dare dell’idealista. È sufficiente parlare della necessità di un drastico cambio di paradigma economico, o dell’urgenza di decarbonizzare rapidamente il comparto energetico, per vedere le proprie argomentazioni screditate da questa etichetta: e non importa che si tratti di un  conservatore, di un moderato, di un fatalista o di un Ministro della Transizione Ecologica, il termine “idealista” è ormai sottolineato con il pennarello grosso nei vocabolari di gran parte della politica italiana. Quando, a ben vedere, la vera ideologia pericolosa è quella fossile, ed è un’ideologia talmente radicata, nelle nazioni occidentali o occidentalizzate, da sembrare inaggirabile. 

È l’ideologia che mette in cima alle priorità politiche di un paese la crescita economica e non la sostenibilità fisica, psicologica ed economica di chi lo abita; è l’automatismo introiettato che, quando ci prospettano limiti pur ragionevoli al consumo di energia, o di acqua, o di suolo, o di carne, ci fa sentire privati di una libertà fondamentale; è l’attitudine di chi è disposto a sostituire tutte le auto a combustibile con auto elettriche, ma non a sgomberare le città dalle auto private, o anche solo a estendere lo smart-working per ridurre il pendolarismo; è la dottrina secondo cui la specie umana detiene un valore eticamente superiore a quello di qualunque altra specie, e che ci spinge a ignorare il fatto che la nostra stessa esistenza dipenda da un ecosistema interconnesso; è l’ideologia che ci fa credere che la crisi alimentare sia colpa della sovrappopolazione, quando ormai coltiviamo più biocarburanti e foraggio da allevamento che cibo; è l’ideologia che ci spinge a cercare “soluzioni” per mantenere in piedi lo stesso sistema economico e produttivo che ci ha portati sull'orlo del collasso; in definitiva: è l’ideologia risultante di nazioni la cui economia è stata alimentata per due secoli da carburanti fossili e che non hanno mai dovuto veramente interiorizzare il concetto di limite.

Un partito che punti genuinamente a ridurre le iniquità e a operare una transizione ecologica efficace, deve necessariamente smantellare l’architettura ideologica fossile che ancora oggi rende difficile (per non dire impossibile) un vero cambio di paradigma.

Tutelare prima le persone, poi il lavoro

Questo martedì INPS e INAIL hanno rilasciato una nota congiunta in cui confermano che le imprese potranno chiedere il riconoscimento della cassa integrazione quando il termometro supera i 35 gradi, una misura che contempla anche le temperature percepite. È uno dei rari casi in cui gli effetti deleteri della crisi climatica vengono riconosciuti in un ambito “non ambientale”, e potrebbe aprire la strada verso un nuovo adattamento climatico degli orari lavorativi.

Del resto i dati parlano chiaro: uno dei primi settori che la crisi climatica sta mettendo in crisi è quello del lavoro, e il discorso non riguarda soltanto tutti quegli agricoltori che in questo periodo stanno lamentando la perdita totale o parziale dei loro raccolti a causa del semestre più secco degli ultimi 70 anni, riguarda anche chi svolge lavori all’aperto (ed è quindi sempre più esposto a ondate di caldo ed eventi estremi), e chi è impiegato in settori che rischiano di essere mandati in rovina dalle ricadute del riscaldamento globale.

Sappiamo che una transizione ecologica seria porterà probabilmente a creare tre volte più posti di lavoro di quanti ne eliminerà (fonte: Organizzazione mondiale del lavoro); sappiamo che le nuove generazioni stanno già facendo scelte di carriera tenendo conto che alcuni settori in futuro scompariranno, o avranno un peso differente; ma sappiamo anche che per decarbonizzare l’economia sarà necessario rivedere un intero paradigma produttivo incardinato attorno alla crescita, il che significherà consumare di meno, produrre di meno e, per forza di cose, lavorare di meno.

Un partito antifossilista serio dovrebbe incorporare anche un’anima transizionista, che ponga ogni scelta nella prospettiva di un cambio di paradigma trasversale, e che spinga lo sguardo oltre il breve termine: se da un lato dovrebbe premere per l'introduzione di un salario minimo, e per la tutela di ogni lavoratore (compresi gli invisibili e i precari, oggi quasi completamente ignorati), dall'altro dovrebbe gettare le fondamenta per un mondo in cui il sostentamento individuale sia smarcato dal lavoro, un mondo in cui quindi un reddito di base universale non sarà più una misura emergenziale, bensì una base di partenza che metta chiunque al riparo dalla miseria e l’inedia.

La migrazione è una forma di adattamento climatico

Appena si è saputo che ci sarebbero state elezioni in autunno, chi ha costruito un’intera carriera politica sventolando lo spauracchio del migrante ha cominciato a parlare di “difendere i confini” e ad associare l’afflusso migratorio a episodi di violenza nelle varie città italiane per dipingere lo scenario artefatto di un paese al degrado. Ma anche dall’altra parte dello spettro politico c’è chi continua a trattare la migrazione come una scelta di vita, dimenticando che la parte più corposa dei flussi migratori si verifica all'interno dei confini nazionali, e che nella quasi totalità dei casi chi si presenta alle porte dell’Europa si sta allontanando da territori che non sono più in grado di fornire le condizioni minime di sicurezza e sostentamento. Condizioni che spesso sono il risultato di ricadute climatiche provocate da emissioni prodotte nei secoli da Europa e Stati Uniti.

Stando ai calcoli della Banca Mondiale, di qui al 2050 ci saranno almeno 250 milioni di nuovi migranti climatici, ossia persone che potrebbero essere costrette ad abbandonare la propria casa per colpa di inondazioni, desertificazione, innalzamento delle acque, perdita di biodiversità ed eventi climatici estremi. È una cifra enorme, considerando che oggi che nel mondo le persone costrette a migrare, quale che sia la causa, non superano i 64 milioni. Ma potrebbe essere una cifra conservativa: stando all’ONU, infatti, il numero di migranti climatici entro il 2050 rischia di raggiungere il miliardo.

Di fronte a una simile prospettiva, la scelta di blindare i porti e le frontiere è scellerata, e non tanto perché abbiamo prova di come l’afflusso di migranti possa portare benefici al paese accogliente (soprattutto quando quel paese è in netto calo demografico), quanto perché esistono ampie zone spopolate nel Nord del mondo che il riscaldamento globale renderà più temperate e vivibili, e che risulterà sempre meno ragionevole blindare.

Un partito antifossilista e transizionista dovrebbe dunque lavorare perché i confini diventino più porosi, e i corridoi migratori siano gestiti in modo più efficiente e sicuro. Perché questo succeda, però, è prima necessario liberarsi della tossica convinzione secondo cui il posto in cui nasciamo ci appartenga, e soprattutto, adottare un approccio globale che consenta di affrontare questioni come la crisi climatica e alimentare, attraverso una solida cooperazione internazionale.

La necessità di un nuovo globalismo

Purtroppo, il mondo sembra andare nella direzione opposta. Quattro mesi di guerra in Ucraina hanno sancito fuor di ogni dubbio il fallimento delle diplomazie internazionali, e in particolare di una visione globalista che non ha mai davvero piantato radici stabili. Occorre infatti ricordare che “globalismo” e “globalizzazione” sono due cose diverse: per “globalismo” si intende l’idea secondo cui gli esseri umani dovrebbero cooperare su scala planetaria per affrontare in modo equo problematiche come clima, migrazione, sicurezza alimentare, gestione delle emergenze sanitarie ed economiche, che non potrebbero comunque essere circoscritte a una dimensione locale; con il termine “globalizzazione” invece, si intende una serie di strategie economiche volte a massimizzare profitti e standardizzare modelli economici e culturali liberisti, con delle dinamiche che ricordano quelle coloniali.

Il problema climatico, l'abbiamo detto più volte, non è risolvibile dai  singoli individui, e purtroppo nemmeno dalle singole nazioni, è dunque necessario un globalismo politico, che si concentri sulla portata planetaria della crisi climatica, premurandosi al contempo di non obliterare le disparità nelle sue ricadute locali. Le conseguenze del riscaldamento globale, infatti, non sono distribuite equamente: per una combinazione di ragioni geografiche e storiche, molte delle nazioni che oggi subiscono gli effetti peggiori del riscaldamento globale – come Afghanistan, India, Pakistan, Kenya, Myanmar, Rwanda, Filippine, per non parlare di tutte le piccole isole che rischiano di sparire dalle cartine –  sono anche quelle storicamente meno responsabili delle emissioni che hanno causato la crisi climatica.

Una transizione ecologica globale non può ignorare questa disparità, ed è per questo che nelle ultimi meeting internazionali le nazioni del Sud del mondo hanno insistito perché le nazioni più ricche e inquinanti stanzino fondi ingenti per consentire alle nazioni più colpite di adattarsi al riscaldamento globale e far fronte agli enormi danni che ha già causato. Alla COP26 di Glasgow i rappresentanti dei paesi meno industrializzati si sono uniti nel chiedere lo stanziamento di una quota compresa tra i 700 e i 1300 miliardi di dollari, una cifra elevata ma non irragionevole. Sono stati platealmente ignorati. E c’era da aspettarselo, considerando che ancora oggi i paesi più industrializzati non sono riusciti a mettere insieme i 100 miliardi previsti dall’Accordo di Parigi del 2015; una prova ulteriore di quanto lontana oggi la prospettiva di una cooperazione continuativa tra gli attori principali dello scacchiere planetario.

Intendiamoci, anche l’idea di una governance climatica globale presenta i suoi rischi. Come hanno bene illustrato Geoff Mann e Joel Wainwright ne Il nuovo leviatano (Treccani, 2019), l’intensificarsi della crisi climatica potrebbe portare all’emergere di un governo sovranazionale autoritario che sfrutterà l’emergenza per introdurre misure liberticide, andando di fatto a incrementare ulteriormente ingiustizie e iniquità.

Un partito antifossilista, transizionista e globalista non dovrebbe dunque solo spingere per una gestione coordinata del problema, ma anche per una rapida e progressiva riduzione del divario tra Nord e Sud del mondo.

Le prime elezioni climatiche della nostra Storia

In questi giorni 500 attivisti provenienti da 55 diversi paesi si sono riuniti a Torino per il meeting europeo di Fridays For Future e per il Climate Social Cam: una settimana di conferenze, dibattiti e gruppi di lavoro in cui si discuterà delle implicazioni sociali, economiche, politiche, sanitarie e culturali della crisi climatica, delle strategie comunicative e di mobilitazione, dei progetti di mitigazione e di adattamento, favorendo quella sovrapposizione di sguardi e intelligenze che è fondamentale per inquadrare un problema così complesso come l'emergenza climatica, e che la politica partitica ancora sembra incapace di catalizzare.

Qualcuno dirà che a Torino sta andando in scena il trionfo dell'idealismo, che gli obiettivi proposti dagli attivisti sono irrealistici, dissennati, un suicidio economico. Ma considerando che  ogni giorno vengono destinati 3000 miliardi di dollari  all’industria fossile, il problema non è tanto dove trovare i soldi, quanto piuttosto chi decidere di scontentare. Ed è questo il vero nodo della questione: una transizione ecologica seria e rapida andrebbe a erodere le fondamenta stesse di una infrastruttura di potere che nell’ultimo secolo ha lavorato incessantemente per puntellare le colonne portati di un sistema fossile.

Nel dare il via ai lavori del Climate Social Camp, gli attivisti di Fridays For Future hanno annunciato uno sciopero globale per il clima il prossimo 23 settembre, e hanno indicato la tornata elettorale del 25 come “Le prime elezioni climatiche” della storia della Repubblica.

Hanno ragione: la crisi climatica continuerà a incidere su ogni distretto della nostra esistenza, e dunque su ogni possibile tema politico, il che significa che qualunque partito che voglia proporre una visione pragmatiche non può ignorarne la portata. E non sto parlando solo di chi milita a sinistra. Perché se è vero che l’Italia ha bisogno di un partito antifossilista, sarebbe ingenuo sperare che ogni fazione politica si emancipi da questo automatismo economico e culturale: molti partiti continueranno a mettere al primo posto la crescita economica e il libero mercato. Ma anche questi partiti dovrebbero occuparsi di sviluppare strategie e risposte per affrontare l’emergenza climatica. Il problema è che non ci provano nemmeno. La cosa sconfortante, infatti, non è tanto che alcuni partiti avanzino proposte di mitigazione e adattamento insoddisfacenti, ma che quasi tutti riducano la questione a un punto marginale del programma.

Il nostro pianeta, e l'Italia in primis, sta affrontando le conseguenze di una crisi climatica devastante, che minaccia di stravolgere ogni aspetto della nostra vita. Sviluppare un programma che metta al centro la questione climatica dovrebbe essere il minimo comun denominatore di qualunque partito. Non è questione di ideologia o di appartenenze politiche, si tratta di prendere atto della realtà.

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Fabio Deotto è scrittore e giornalista. Laureato in biotecnologie, scrive articoli e approfondimenti per riviste nazionali e internazionali, concentrandosi in particolare sull’intersezione tra scienza e cultura. Ha pubblicato i romanzi Condominio R39 (Einaudi, 2014), Un attimo prima (Einaudi, 2017) e il saggio-reportage sul cambiamento climatico “L’altro mondo” (Bompiani, 2021).  Insegna scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino. Vive e lavora a Milano.
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