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Lampedusa, lo strazio dei migranti sopravvissuti al naufragio durante il riconoscimento dei corpi

Il team di Medici Senza Frontiere ha assistito 13 superstiti del naufragio di Lampedusa nella delicata fase di riconoscimento delle vittime della tragedia del mare: “Tutti erano tesissimi e alcuni tremavano al terrore di rivedere i corpi dei compagni di viaggio. Ho sentito le loro vibrazioni gli attimi prima in cui avrebbero visto le foto che ritraevano ciò che resta dei loro familiari o amici”.
A cura di Annalisa Cangemi
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Negli ultimi giorni, a partire da sabato, anche un team di Medici senza frontiere (MSF), formato da un psicologo e un mediatore interculturale, ha fornito supporto psicologico a 13 superstiti – 6 donne della Costa d'Avorio e 7 uomini della Tunisia – dell'ultimo naufragio di Lampedusa (quello del 7 ottobre), assistendoli durante il riconoscimento dei corpi di familiari e amici, riportati a terra dai sommozzatori a partire dal 16 ottobre.

I naufraghi sono ancora molto provati. I volontari di MSF hanno dato la loro testimonianza, chiedendo che queste persone vengono al più presto mandate altrove, visto che a Lampedusa sono ancora sottoposte a un forte stress. Dopo che il barcone era affondato solo 22 migranti sono sopravvissuti: uno di loro è stato già trasferito altrove, per motivi di salute; gli altri 21 si trovano ancora nell'hotspot dell'isola. Non tutti però hanno avuto la forza di guardare quei cadaveri recuperati vicino al relitto per identificarli.

"La fase del riconoscimento dei corpi, durata circa 3 ore, è stato un momento di dolore e angoscia – ha raccontato Dario Terenzi, psicologo di MSF, che ha accompagnato i sopravvissuti durante il difficile processo – Tutti erano tesissimi e alcuni tremavano al terrore di rivedere i corpi dei compagni di viaggio. Ho sentito le loro vibrazioni gli attimi prima in cui avrebbero visto le foto che ritraevano ciò che resta dei loro familiari o amici. I corpi dei naufraghi sono straziati. Una ragazza ci ha chiesto perché alcuni fossero diventati bianchi. L'acqua marina ha corroso i corpi fino a trasformare il colore della pelle. Il mare li ha trasformati a tal punto da stravolgere le fattezze dei volti. E così il riconoscimento è avvenuto tramite un capo di abbigliamento o un segno particolare".

Come per una ragazza ivoriana che ha riconosciuto il compagno perso in mare dalla felpa che questi indossava quel giorno. "La ragazza era terrorizzata, ma – ha detto ancora lo psicologo di MSF – ha voluto rivedere il suo compagno. È crollata un attimo dopo sciogliendosi e scomparendo dentro un lungo pianto di straziante dolore e disperazione. L'abbiamo assistita e poi accompagnata nella sua camera dove lentamente, anche grazie all'aiuto insostituibile delle sue compagne di viaggio, si è ripresa. Prima di andar via ci ha timidamente salutati e, abbozzando un sorriso, ha pregato affinché Dio ci benedicesse".

Lo psicologo ha aggiunto che "tutti i nostri pazienti hanno raggiunto un livello appena sufficiente di tranquillità, non certo di serenità. Quando li abbiamo incontrati il primo giorno avevano lo sguardo fisso, erano rigidi, alcuni non parlavano affatto. Ancora oggi molti di loro hanno incubi, difficoltà ad addormentarsi, paura a rimanere soli, c'è chi non dorme da giorni, non hanno fame, e hanno raccontato di essere sopraffatti da immagini e pensieri intrusivi, rivedono e rivivono in continuazione le immagini del naufragio. Prevale ed è palpabile – ha detto ancora – un forte senso di disagio, estrema sofferenza e frustrazione. Infatti, molti continuano a domandarsi perché siano ancora vivi, perché loro ce l'hanno fatta. Abbiamo accolto e abbracciato questi sentimenti, li abbiamo condivisi e in qualche modo abbiamo cercato insieme a loro di renderli più tollerabili e almeno in parte comprensibili al loro pensiero e al loro cuore. Posso provare a immaginare che sbiadire il ricordo e sciogliere l'angoscia richieda un arco di tempo molto più lungo di questi giorni e ancora tanta fatica".

MSF ha lanciato un appello: "Queste persone hanno bisogno di essere trasferite, di allontanarsi da Lampedusa. Ci hanno detto chiaramente che non vogliono stare più qui. Sentono addosso la tragedia che li ha travolti. Continuano a domandarsi perché vengono tenuti ancora qui dove sono morti i loro cari". Per questo l'organizzazione ha chiesto alle autorità competenti "che le due comunità, le 6 donne ivoriane e i 7 uomini tunisini, non vengano divise e che i due gruppi vengano lasciati uniti e trasferiti negli stessi centri di accoglienza. Non separarli è un piccolo, ma utilissimo, fattore di protezione che abbiamo visto in passato aiutare significativamente i superstiti. Il naufragio è qualcosa che ti lega a vita. La Prefettura ha accolto la nostra richiesta e non è escluso che continueremo a seguire queste persone nell’immediato futuro".

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