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Crisi di Governo 2022

La versione di Giuseppe Conte: le ragioni di una crisi di governo inevitabile

La decisione di Giuseppe Conte di non votare la fiducia sul decreto Aiuti è tanto un azzardo quanto la logica conclusione di un percorso cominciato mesi addietro. Proviamo a capire cosa c’è dietro.
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Mario Draghi si è dimesso da Presidente del Consiglio, Mattarella lo ha rimandato alle Camere, i partiti stanno decidendo il da farsi. L’ennesima crisi di governo di questa legislatura non poteva che essere raccontata con i caratteri di uno psicodramma, secondo una pratica ormai consolidata. In effetti, la decisione del Movimento 5 stelle di non votare la fiducia al governo sul decreto Aiuti, pur configurandosi come la concretizzazione di un malessere che da mesi serpeggiava fra le fila grilline, è stata giudicata un errore dalla stragrande maggioranza degli analisti politici, nonché dai leader dei principali partiti italiani. Sono in molti ad aver bollato come incomprensibile la decisione di Conte sul voto del dl Aiuti, anche in relazione alla situazione surreale in cui ha messo i senatori e i ministri 5 Stelle, costretti a non votare la fiducia al governo di cui fanno parte. In queste ore il coro di media e analisti è pressoché unanime: aprire la crisi in questo momento è un azzardo, data la difficile contingenza economica, le complessità a livello internazionale e la recrudescenza della pandemia nel nostro Paese.

Eppure, nella testa di Conte, le cose stanno molto diversamente e il percorso fatto fin qui è finanche lineare. I suoi fedelissimi rilanciano in queste ore le ragioni di uno strappo necessario, forse finanche tardivo. Premessa doverosa: il capo politico del Movimento ha sempre considerato la sua sostituzione a Chigi come il risultato di una spregiudicata manovra di palazzo. Ragion per cui, giudica abbastanza singolare il tentativo di usare nei suoi confronti la carta dell’irresponsabilità: del resto, non erano forse simili le condizioni in cui è maturato l’abbandono della maggioranza Pd-Iv-LeU- M5s da parte della truppa renziana? Non c’era allora la piena emergenza Covid-19 o la necessità di dare attuazione al Pnrr?

Perché Conte ha fatto ciò che ha fatto, insomma

Ovviamente, tutto ciò non risponde alle domande centrali: perché Giuseppe Conte ha agito in questo modo? Cosa lo ha portato a non votare la fiducia al governo di cui il Movimento 5 Stelle fa parte? Cosa spera di ottenere?

Al netto di una gestione improvvisata del voto in Aula, la risposta è meno semplice di quanto si possa pensare. Prima di tutto bisogna considerare le pressioni dei parlamentari rimasti nel Movimento dopo lo scisma dimaiano: con qualche eccezione di peso, infatti, da tempo l'orientamento è quello di rompere con Draghi e con la maggioranza delle larghissime intese. Quella del partito non è una gestione normale, ma emergenziale. Si tratta di centinaia di parlamentari che hanno scarsissime possibilità di essere rieletti e che sentono la responsabilità di aver completamente tradito la missione che era stata affidata loro da militanti ed elettori: sbarcati a Roma per aprire il Parlamento come una scatola di tonno, sono finiti a votare i provvedimenti di Mario Draghi, praticamente senza poter aprire bocca. Un epilogo prevedibilissmo, determinato principalmente dalla scelta di appoggiare l'esperimento draghiano: un vicolo cieco nel quale Conte stesso ha portato il Movimento, illudendosi di poter essere forza di lotta e di governo, per poi dover prendere atto non solo delle difficoltà pratiche, ma anche dei limiti strutturali della sua classe dirigente e di quelli della sua azione politica.

Piccolo inciso: l'azzeramento della libertà di manovra del M5s all'interno del governo dei migliori è un fatto, non una tesi complottista. La prima forza parlamentare del Paese si è ritrovata confinata a mera rappresentanza, senza poter dare impulso all'azione dell'esecutivo e costretta a digerire continui attacchi ai principali risultati conseguiti nelle passate esperienze di governo. Nel suo ultimo incontro con Draghi, Conte ha battuto più volte sul punto, che è insieme politico e strategico. Nella sua lettura, non è sostenibile una partecipazione passiva a un esecutivo egemonizzato dai fedelissimi del Presidente, con priorità di azione determinate unicamente da fattori esogeni e che spesso comportano la compressione della discussione parlamentare. Draghi si è limitato a scrollare le spalle e a fare qualche timida apertura, avendo peraltro le sue buone ragioni: non è un politico in senso tradizionale, non ha necessità di conservare la poltrona costi quel che costi e dunque non può accettare che una componente della maggioranza lo metta di fronte a ultimatum o a liste della spesa.

Da questo punto di vista, Draghi ha ragione. Questo governo è nato con un mandato preciso, sulla scorta di un patto di responsabilità tra le forze politiche; Draghi non è stato chiamato a garantire le rendite politiche di questo o quel partito, bensì a gestire una fase emergenziale e completare la legislatura. Certo, ha spostato l'asse politico del governo, ha tutelato soggetti "diversi" e, in alcuni ambiti, finanche cancellato le tracce del suo predecessore. Ma era piuttosto prevedibile, anzi alcuni osservatori si sono persino stupiti di una certa inclinazione al compromesso che non credevano "da Draghi": davvero Conte pensava che le cose potessero andare diversamente?

Perché rompere sul decreto Aiuti

La radice dello strappo grillino è da ricercarsi proprio nei caratteri costitutivi della reggenza draghiana, nella distanza fra le necessità delle altre forze politiche della maggioranza e quelle dei 5 Stelle. Un partito fuori controllo, squassato da una scissione pesantissima, in costante calo nei sondaggi e senza alcun obiettivo di breve periodo che non sia la propria sopravvivenza. Senza uno scopo, né un nemico, insomma. Il decreto Aiuti era la tempesta perfetta perché tali contraddizioni venissero fuori. Un provvedimento scritto in fretta, molto eterogeneo, che conteneva una serie di passaggi contestati dai 5 Stelle e indigeribili per la base storica dei militanti. È difficile capire il confine tra utilizzo pretestuoso e reale centralità di alcune misure, tipo i poteri speciali a Gualtieri (ovvero il termovalorizzatore di Roma, finito sulle pagine dei giornali internazionali).

Di certo, la contrarietà del Movimento 5 stelle al decreto Aiuti era nota da tempo ed era emersa con forza alla Camera dei deputati e nei lavori preparatori. Era di merito, prima ancora che di metodo. L'ostinazione con la quale il governo ha scelto di confermare la questione di fiducia al Senato, malgrado ci fossero i tempi per approvare ugualmente il provvedimento (e per accettare le modifiche chieste dai 5 Stelle), non può essere liquidata con sufficienza, proprio perché è la conferma della volontà di arrivare allo showdown anche da parte delle altre forze politiche della maggioranza. E, tutto sommato, anche dello stesso Draghi, urtato dalle ambiguità dei partiti e deciso a non accettare il fuoco amico. Soprattutto, quello di Conte, con cui i rapporti non sono propriamente idilliaci, per usare un eufemismo.

Solo pochi giorni prima del loro colloquio, c'era stato il caso De Masi, gestito in modo imbarazzante tanto dai grillini che dal cerchio magico di Draghi. In quell'occasione, che le veline di palazzo hanno provato a raccontare come una bolla di sapone, erano invece emersi due elementi centrali: la disistima di Draghi nei confronti di Conte e il ruolo attivo di Beppe Grillo. Il Presidente del Consiglio sa benissimo che se ora non siede al Quirinale, come pure in qualche modo gli era stato prospettato, lo deve principalmente al leader del Movimento 5 Stelle. Non ha gradito la gestione della rielezione di Mattarella e men che meno il modo in cui Conte si è mosso su alcuni snodi cruciali della sua reggenza a Palazzo Chigi, questione Ucraina su tutte. Nel corso degli ultimi mesi, ha costruito un rapporto privilegiato con i ministri 5 Stelle, che non a caso sono tra i più indecisi in questo frangente. Soprattutto, ha creato un legame con Luigi Di Maio, al punto che Conte lo considera tra i registi dell'operazione che ha portato alla scissione del Movimento. Non è tutto, perché l'ex numero uno della Bce parla direttamente con Beppe Grillo, certamente non di stand up comedy o di pesca subacquea. Non è cosa di poco conto, visto che i rapporti tra il capo politico e il garante sono incrinati da tempo e che le ultime uscite romane di Grillo sono state un disastro totale.

Ora, mettetevi nei panni di Giuseppe Conte. Hai accettato di sostenere un governo nato da quella che consideri una congiura di palazzo. Sei entrato in maggioranza assieme al tuo "carnefice", all'uomo del Papeete e a una serie di soggetti che ti disprezzano più o meno apertamente. Il Presidente del Consiglio ti scavalca di continuo, marginalizza le tue istanze politiche e sei convinto che abbia lavorato in favore di una scissione del tuo partito. Hai dovuto assistere alla saldatura di interessi e rapporti di forze interni all'esecutivo, ormai egemonizzato dai "draghiani" (non solo i tecnici, ma anche ministri come Brunetta, Messa e lo stesso Di Maio). Hai pagato il prezzo più alto di tutti in termini di consenso elettorale, perdi giorno dopo giorno parlamentari ed eletti. Chiedi di non porre la fiducia su un testo che consideri invotabile, ti ridono dietro. Non ti resta che prenderne atto e agire di conseguenza, oppure ingoiare l'ennesimo boccone amaro nel nome della responsabilità.

Il problema è che non ha fatto nessuna delle due cose. Perché, chiariamolo ancora una volta, non votare la fiducia senza uscire dal governo è una contraddizione evidente.

Il futuro di Conte e del Movimento 5 stelle

Possibile che Conte non si sia reso conto che non votare la fiducia sul decreto Aiuti avrebbe significato aprire una crisi politica di tale portata? Possibile che non abbia pensato anche alle ripercussioni a lungo termine e al rischio di rottura con il Partito democratico? Ecco, o pensiamo che sia uno sprovveduto incapace di capire l'ovvio, oppure ipotizziamo che abbia messo in conto le conseguenze delle sue scelte.

Nella situazione in cui siamo, è certo possibile che Mario Draghi consideri lo strappo non più ricomponibile, archiviando così la propria esperienza a Chigi e lasciando il Paese in balìa della crisi pandemica, energetica ed economica. In questi giorni in molti lo raccontano come deciso a lasciare, coerentemente con quanto spiegato al Presidente della Repubblica e ai giornalisti nell’ultima conferenza stampa prima della crisi. Con o senza i 5 Stelle, però, Draghi può contare su un’ampia maggioranza e sulla benedizione delle cancellerie europee e dei partner internazionali: come farà a ignorare la forza di tali pressioni e sottrarsi a una responsabilità così grande?

È questa la scommessa di Giuseppe Conte, la speranza che il Presidente del Consiglio proprio non possa lasciare il suo incarico. Che sia costretto a farlo, scongiurando la crisi e dando la possibilità ai 5 Stelle di riposizionarsi sullo scacchiere politico, cercando di recuperare consenso tra l’elettorato sfiduciato e ostile alle larghe intese. Del resto, il progetto politico della "seconda versione di Conte" era quello di costruire una forza radicale e ambientalista, che potesse collocarsi nel campo largo del centrosinistra, raccogliendo l'appoggio dell'elettorato storico dei 5 Stelle e pescando nella platea degli astensionisti. Le contingenze e alcuni chiari errori di gestione lo hanno portato molto fuori traiettoria, restare ancorato a questa maggioranza significherebbe scomparire lentamente dai radar. L'ultima possibilità è rompere con Draghi, confidando nel fatto che la crisi sia totalmente assorbibile, che i partiti trovino un accordo, convincano Draghi e scongiurino elezioni anticipate. Le tempistiche, del resto, sono favorevoli: anche nel caso la crisi precipitasse, tra elezioni e insediamento, non se ne parlerebbe prima dell'autunno inoltrato.

È un azzardo, ragionano i contiani, ma anche una delle ultime possibilità per invertire lo sgretolamento di consensi, peso politico e autorevolezza interna al partito. Con la certezza che uno strappo di questo tipo non comprometterà l’alleanza con il Partito democratico alle prossime elezioni. Del resto, come mostra questa simulazione YouTrend-Cattaneo, i voti grillini restano fondamentali se il centrosinistra vuole avere una minima possibilità di essere competitivo alle urne, considerate anche le difficoltà della “cosa centrista”.

Insomma, uno strappo indolore per il Paese, utile per il Movimento, che le altre forze politiche saranno costrette a subire senza colpo ferire. Ora restano da convincere solo Draghi, i ministri grillini, i leader di tutte le altre forze politiche e Mattarella. Facile, no?

Aggiornamento – In effetti, Conte sembra voler andare proprio in questa direzione. In una diretta Facebook ha ribadito che nella sua lettura la responsabilità della crisi è del Presidente del Consiglio Mario Draghi, che aveva un'ampia maggioranza e dunque nessun motivo per dimettersi. Conte ha chiesto a Draghi di accettare i "nove punti" programmatici del M5s, come base per la permanenza in maggioranza. In caso contrario, i Cinque stelle opterebbero per un appoggio esterno, uscendo dal governo.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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