
Pubblichiamo di seguito un editoriale di Antonio Nicita, senatore del Pd
C'è una strategia brutale e sistematica in atto da parte della destra nazional-sovranista: rendere l’istituzione — Corti nazionali e internazionali, la magistratura, le autorità di regolazione, i beni pubblici e il servizio pubblico nelle varie declinazioni — oggetto di diffidenza e avversione.
Non si tratta di critiche legittime nel merito, cioè caso per caso, ma di una costruzione complessiva e intenzionale di nemici funzionale a un racconto delle istituzioni come soggetti di parte, che agiscono “contro il popolo”, che tutelano interessi estranei, che sono corrotte o illegittime. Il corollario di questo racconto è che le istituzioni, quando decidono in ambiti di interferenza con decisioni dei governi di destra, devono limitarsi a eseguire la volontà popolare che diventa, essa stessa, legge. È una precisa tattica che abbiamo visto ripetuta: alimentare la disinformazione, attaccare il dissenso, utilizzare il linguaggio d'odio contro le minoranze, delegittimare chi controlla, isolare chi giudica, colpire chi informa, minandone l’indipendenza per poi accusarne la parzialità.
La giurista Carla Bassu la chiama, a ragione, "regressione costituzionale". La destra nazional-sovranista che oggi mira a indebolire lo Stato di diritto costruisce il proprio consenso su un racconto semplice e potente: individua un “nemico interno” — il magistrato che “lavora per i poteri”, il giornalista che “diffonde fake news”, il funzionario che “blocca l’Italia”, i docenti universitari che avanzano critiche, le associazioni non governative — e lo trasforma in simbolo di una presunta cospirazione contro il popolo, in nome di una verità alternativa che deve essere libera di manifestarsi contro quanti la ostacolano. Ogni decisione amministrativa o giudiziaria viene letta come prova della collusione. Ogni commento critico viene percepito come minaccia. Il pluralismo stesso è visto come un inganno, una debolezza delle democrazie. Si propaga il linguaggio d’odio e poi si usa il dissenso da esso generato come prova di odio altrui. Il risultato è duplice: da un lato si scredita l’autorevolezza delle istituzioni, dall’altro si mobilita una base emotiva che giustifica misure aggressive contro di esse.
Questa costruzione politica dell’odio non è casuale: è una precisa strategia. Svuotare di credibilità i controlli è il primo passo per poterli riformare o sottomettere con minore resistenza. Le proteste non sono sintomi di un dissenso da ascoltare ma evidenza di un caos da controllare. Law and Order. Perché quando la fiducia nelle istituzioni crolla, la società è più disposta ad accettare modifiche costituzionali, restrizioni di diritti, concentrazioni di potere che in tempi normali respingerebbe. La tattica funziona dove la società è stanca o divisa: la paura e la rabbia riempiono il vuoto della fiducia.
E la prima vittima di questo processo non è solo interna, ma è anche transazionale. Il diritto internazionale, e con esso le istituzioni multilaterali, si fonda infatti su un principio fragile e straordinario: il commitment volontario degli Stati nazionali a rispettare regole che non si possono imporre con la forza nell’arena internazionale. Trattati sul clima, convenzioni sui diritti umani, accordi sui rifugiati, soccorso in mare, persino i limiti all’uso della forza in guerra — tutto dipende dalla cooperazione internazionale per il riconoscimento reciproco di un vincolo morale e politico comune.
Quando la polarizzazione delegittima il concetto stesso di vincolo, l’intero edificio del diritto internazionale inizia a incrinarsi in nome di un nazionalismo che vuol dire solitudine e isolamento, ma anche arbitrio della forza della maggioranza interna. Lo vediamo ogni giorno: i trattati sul clima violati in nome di priorità energetiche nazionali, le convenzioni sui migranti disattese per ragioni di consenso interno, le guerre combattute al di fuori di ogni legalità internazionale. E anche l’economia, tradizionalmente terreno di interdipendenza, e secondo Montesquieu persino di ‘gentilezza' tra stranieri, è diventata campo di scontro: la politica aggressiva di Trump sui dazi, sui sussidi strategici e sulle ritorsioni commerciali mina i principi fondamentali dell’Organizzazione Mondiale del Commercio e dell’idea stessa di cooperazione economica multilaterale. L’Organizzazione mondiale della Sanità viene dipinta come il covo dei complottisti pro-vaccini e pro-epidemie. In nome della “sovranità produttiva”, si erodono i meccanismi di fiducia e le regole che hanno permesso per decenni una competizione regolata. Così, la crisi della fiducia interna si riflette immediatamente in quella globale: se gli Stati non riescono più a fidarsi delle proprie istituzioni indipendenti, difficilmente rispetteranno quelle sovranazionali.
Come si ribalta la narrazione della destra sulle istituzioni?
A questo punto si pone la domanda cruciale: come rispondere senza cadere nella trappola della polarizzazione inversa? Come difendere le istituzioni senza trasformarle in armi di parte? Questo è il dilemma odierno delle forze democratiche. Difendere le istituzioni contro le destre è necessario ma finisce per offrire alle destre l’occasione ulteriore di polarizzarle: se le forze democratiche e progressiste difendono le istituzioni è perché quelle istituzioni sono di parte. E così la tendenza alla polarizzazione istituzionale è reale. D’altra parte se non si difende lo stato di diritto dalle picconate della destra nazional-sovranista, esso è destinato comunque a indebolirsi, forse irreversibilmente.
La risposta deve essere allora più profonda: occorre difendere l’indipendenza delle istituzioni, ma coniugando la radicalità dei valori con un messaggio inclusivo, comune, lungimirante:
1. Costruire una coalizione civica della fiducia. Serve una rete trasversale — società civile, università, corpi intermedi, organizzazioni professionali — che parli di istituzioni come bene comune, non come campo di battaglia tra schieramenti.
2. Dimostrare l’indipendenza con i fatti. L’indipendenza non si proclama, si pratica. Decisioni trasparenti, motivazioni chiare, regole di nomina visibili: la legittimità si costruisce nella prevedibilità delle procedure, non nella retorica.
3. Parlare il linguaggio della responsabilità e dell’inclusione. I valori democratici vanno affermati con radicalità, ma rappresentati e comunicati in modo da includere. La sfida è rendere la difesa delle istituzioni comprensibile e utile anche a chi non vi si riconosce più: ricordare che l’indipendenza delle istituzioni contrasta la disuguaglianza perché serve soprattutto ai più deboli, non ai poteri forti.
4. Proporre riforme che accrescano la legittimità delle istituzioni. Ogni riforma deve aumentare la fiducia e la rappresentanza, non ridurla. Trasparenza e accountability non sono bandiere ideologiche: sono le basi per ricostruire il consenso democratico e tollerare il dissenso.
5. Promuovere l’educazione alla cittadinanza e alla narrazione pubblica indipendente. Spiegare il funzionamento delle istituzioni, nazionali e internazionali, aiuta a difenderle. Una cittadinanza informata è meno manipolabile e più resistente alla disinformazione e al linguaggio dell’odio.
6. Evitare lo strumentalismo del potere. Chi difende l’indipendenza deve evitare di usarla come arma contro l’avversario politico. L’indipendenza istituzionale non è un campo da conquistare, ma un patrimonio da preservare.
7. Costruire un'agenda politica dei diritti sociali e individuali che mostri i vantaggi per tutti di una società inclusiva.
8. Promuovere regole condivise per il contrasto alla disinformazione e ai linguaggi d'odio nel web, per la trasparenza algoritmica, per affermare il diritto a (non) essere (dis)informati, per contrastare le campagne di propaganda politica-elettorale e di microtargeting nascoste nel web.
Insomma, difendere le istituzioni significa, oggi, difendere la possibilità stessa di avere regole comuni — a livello nazionale, europeo e internazionale. Quando la polarizzazione trasforma ogni vincolo in sospetto, ogni limite in tradimento, il primo edificio a crollare è quello che regge il diritto globale: la fiducia reciproca. In questo scenario, l’Unione Europea rappresenta non solo uno spazio economico, ma una comunità di diritto che lega la sovranità degli Stati ai principi comuni dello Stato di diritto, della separazione dei poteri e dei diritti fondamentali. È il laboratorio più avanzato di cooperazione basata su regole condivise: un vincolo giuridico che non toglie sovranità, ma la civilizza e la orienta al bene comune. Difendere l’Unione Europea e il suo ruolo oggi significa difendere l’idea stessa che la legge possa limitare la forza e che la democrazia possa superare i confini nazionali senza perdere sé stessa. Se l’Europa vacilla, vacilla la possibilità di qualsiasi diritto sovranazionale.
E in fondo, è questo il punto più drammatico e più vero: se tutto è polarizzato, nulla è più comune. E se nulla è più comune, allora nulla è più pubblico — nessun valore, nessuna regola, nessuna istituzione può dirsi di tutti. Quando il terreno condiviso scompare, scompare anche l’idea stessa di popolo, inteso non come massa contrapposta, ma come comunità politica.
Per questo serve una coalizione della fiducia. Difendere le istituzioni non è un gesto conservatore, ma un atto rivoluzionario di inclusione. È la scelta di coniugare la radicalità dei valori democratici — libertà, uguaglianza, diritti, giustizia — con la capacità di parlare a tutti, anche a chi oggi non crede più nella democrazia.
Perché se nulla ci unisce più, anche il diritto che dovrebbe proteggerci si dissolve. E con esso, la possibilità stessa di chiamarci cittadini di una società democratica.