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In Italia si lavora meno che nel resto d’Europa: ecco perché non è una buona notizia

Nonostante trent’anni di riforme previdenziali, l’Italia resta tra i Paesi europei con la vita lavorativa più breve. I giovani entrano tardi nel mondo del lavoro, e il sistema produttivo ne soffre. Un’indagine CNA evidenzia i numeri di una crisi strutturale, che solo le microimprese sembrano poter contrastare.
A cura di Francesca Moriero
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L'Italia arranca nel panorama lavorativo europeo. A dirlo è un'indagine condotta da CNA Area Studi e Ricerche, che mette sotto la lente il legame tra demografia, occupazione e sostenibilità del sistema previdenziale. E i dati non sono per niente confortanti: tra i 27 Paesi dell'Unione Europea, l'Italia registra infatti una delle durate medie della vita lavorativa più basse, seconda solo alla Romania. Un'anomalia che, nonostante decenni di riforme pensionistiche, rischia di compromettere la tenuta dei conti pubblici e il futuro delle nuove generazioni.

La vita lavorativa italiana è troppo corta

Secondo il report CNA, la vita lavorativa media in Italia è di 32,8 anni, un dato decisamente sotto la media europea di 37,2 anni. A confronto, Paesi come l’Olanda (43,8 anni), la Svezia (43) e la Danimarca (42,5) vantano una durata decisamente più lunga. Anche tra le grandi economie europee, l’Italia è il fanalino di coda: la Germania arriva a 40 anni, la Francia si attesta sulla media, mentre la Spagna sfiora i 36,5 anni.

Questa breve vita lavorativa non è solo una questione di numeri, ma una vera e propria bomba a orologeria per il sistema pensionistico italiano: una carriera lavorativa più corta significa infatti molti meno contributi versati e, quindi, maggiori pressioni sulla sostenibilità delle pensioni pubbliche.

Giovani esclusi: ingresso al lavoro troppo tardivo

La causa principale di questa anomalia? L'ingresso tardivo dei giovani nel mondo del lavoro. In Italia, i lavoratori tra i 15 e i 24 anni rappresentano solo il 4,7% del totale degli occupati; una percentuale drammaticamente bassa se confrontata con quella della Germania (10,1%), della Francia (9,1%) o della Spagna (6%).

Questo ritardo si deve a diversi fattori: percorsi formativi troppo lunghi e poco integrati con il mondo produttivo, scarsa cultura dell'alternanza scuola-lavoro, ma anche una mancanza strutturale di opportunità per i giovani, soprattutto nel Sud del Paese. Il risultato è una generazione che entra tardi nel mondo del lavoro, spesso con contratti precari, e che fatica ad accumulare anzianità contributiva sufficiente per una pensione dignitosa.

Le microimprese come motore del ricambio generazionale

Se da un lato il sistema appare bloccato, c'è però un settore che continua a offrire una via d'uscita: le micro e piccole imprese. Secondo CNA, sono infatti proprio queste realtà a dimostrare una maggiore apertura verso i giovani. Nelle imprese con meno di dieci addetti, infatti, il 22,4% dei dipendenti ha meno di trent’anni — una percentuale che scende drasticamente nelle imprese più grandi: solo il 12% dei dipendenti nelle aziende con oltre 250 addetti ha meno di trent’anni.

Questo dato suggerisce sostanzialmente che il ricambio generazionale passa, oggi più che mai, dalle piccole realtà imprenditoriali, spesso a conduzione familiare, che riescono ancora a intercettare energie fresche e offrire percorsi di crescita professionale.

Il sistema produttivo rischia la disgregazione

L'allarme lanciato da CNA non riguarda però solo i conti previdenziali, ma tocca anche la tenuta complessiva del tessuto produttivo italiano: senza un serio ricambio generazionale, molte imprese, soprattutto artigiane e a conduzione familiare, rischiano davvero di chiudere nei prossimi anni. Le competenze, il know-how, le tradizioni produttive rischiano di perdersi in un Paese che invecchia senza formare il futuro. Intervenire insomma, non è più un'opzione ma proprio una vera necessità: occorre riformare le politiche attive del lavoro, favorire l'occupazione giovanile, promuovere l'alternanza scuola-lavoro e sostenere fiscalmente le imprese che assumono under 30. Solo così, forse, si potrà allungare la vita lavorativa media e garantire un futuro sostenibile al sistema pensionistico italiano.

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