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Psicologo Msf racconta: “I migranti dopo un naufragio si chiedono ‘perché ci siamo salvati’?”

Lo psicologo palermitano Dario Terenzi, 43 anni, ha raccontato a Fanpage.it la sua esperienza come operatore di MSF: “Una domanda su tutte angoscia i migranti: ‘Come mai mi sono salvato io e non il mio compagno di viaggio?'”. Lo psicologo ha seguito i 13 sopravvissuti al naufragio del 7 ottobre a Lampedusa.
A cura di Annalisa Cangemi
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Le immagini dei corpi sul fondale di Lampedusa, accanto al relitto di barcone affondato lo scorso 7 ottobre, sono ancora davanti ai nostri occhi, grazie alle fotografie scattate dai Nuclei subacquei della Guardia costiera. Corpi senza vita recuperati nelle vicinanze dell'‘Abdel Kader', inghiottito dalle onde insieme ad almeno altri 40 migranti, alcuni di nazionalità ivoriana, altri di nazionalità tunisina. Dopo una strage del mare come questa dopo qualche settimana si spengono i riflettori, almeno fino alla successiva ondata di arrivi. E le vite di chi, per un favore del destino, ce l'ha fatta, rimangono allacciate a quell'evento traumatico. Un elemento delle stragi del Mediterraneo che a volte viene ignorato, oscurato dal dibattito sui numeri, sacrificato sull'altare del consenso politico.

Queste persone però hanno un segno impresso nella memoria, e di questa traccia dolorosa si fanno spesso carico i volontari delle organizzazioni umanitarie: assistenti sociali, psicologi, medici, mediatori culturali. Fanpage.it ha contattato Dario Terenzi, 43enne palermitano, psicologo di Medici Senza Frontiere, che nei giorni scorsi ha fornito con il suo team assistenza psicologica ai 13 superstiti del naufragio del 7 ottobre, accompagnandoli nella difficile fase del riconoscimento dei cadaveri di amici e parenti, riportati a terra dai sommozzatori.

"Il nostro obiettivo, come psicologi, è quello di valutare i bisogni più immediati di queste persone, a partire dalle esigenze mediche. Funziona così: si organizzano delle sessioni di gruppo, con i diretti interessati. E questi gruppi sono condotti da noi psicologi. Non abbiamo il tempo di andare a fondo alle storie di ognuno, ci limitiamo a gestire i loro sintomi, dovuti ai postumi dell'incidente avvenuto in mare. Negli hotspot ci sono uomini e donne fortemente condizionate a livello psicologico. Dopo uno sbarco critico come questo, i giovani – in questo caso avevano tutti di età compresa tra i 18 e i 28 anni – hanno disturbi del sonno, incubi, e da svegli hanno pensieri intrusivi, sono tormentati da immagini terribili del naufragio, non vogliono stare da soli, hanno una forte ansia per il loro futuro, scoppiano in pianti improvvisi. Si chiedono continuamente ‘dove andrò?', ‘dove sarò trasferito?'. Vivono insomma in una dimensione di ipersensibilità rispetto al mondo esterno, uno stato che permane anche molto dopo l'evento traumatico che hanno subito. Il nostro compito è quello di cercare di contenere queste paure", ci ha raccontato al telefono.

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Spesso è proprio lo stare in gruppo che aiuta a superare il momento più difficile dell'elaborazione della tragedia: "A volte si innescano meccanismi di ‘self-help' ed è per questo che diventa fondamentale che queste persone non vengano divise, quando vengono smistate poi nei centri sparsi sul territorio". Medici Senza Frontiere ha chiesto alla Prefettura di Agrigento di intervenire subito, affinché queste 13 persone, 6 donne ivoriane e 7 uomini tunisini, siano spostati tutti insieme in strutture adeguate. Nell'hotspot, dove la situazione sembra essere tornata alla normalità dopo il sovraffollamento che si è registrato nelle ultime settimane, gli ospiti sono ancora troppo vicini ai luoghi dolorosi, che non favoriscono il recupero di una serenità accettabile.

"Chiaramente ognuno reagisce in modo diverso, in base alle proprie risorse. Noi, di concerto con la polizia scientifica che sta seguendo il loro caso, gli abbiamo spiegato che la loro collaborazione per identificare i corpi era assolutamente volontaria, e sono stati presi tutti gli accorgimenti possibili per tutelarli, ad esempio sono stati coperti i voli nelle fotografie", ha spiegato lo psicologo 43enne.

Dei 22 superstiti, tra cui c'erano anche quattro minori, 9 sono già andati via da Lampedusa. Quelli che sono rimasti erano tutti amici o conoscenti delle vittime: "La storia più complicata è quella di una ragazza ivoriana che ha riconosciuto in quelle fotografie il suo compagno defunto. Questo è stato sicuramente l'intervento più doloroso. La ragazza ha avuto una crisi di pianto, ed è riuscita a calmarsi solo perché aveva accanto a lei le compagne di viaggio. Noi cercheremo di contattare i servizi sociali dei territori in cui verranno trasferiti i superstiti, per monitorarli e magari effettuare più avanti un follow-up. Una domanda su tutte angoscia queste persone: ‘Come mai mi sono salvato io e non il mio compagno di viaggio?' Sono meccanismi irrazionali, ma i migranti sono attanagliati dai sensi di colpa. Qui entra spesso in gioco la religione, cercano di dare un senso a quello che hanno dovuto affrontare affidandosi a un'entità divina".

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