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Crisi di Governo 2022

Cos’è andato storto: come Draghi e i partiti sono riusciti a mandare all’aria il governo dei migliori

La maggioranza non c’è più, il governo Draghi è finito, si va verso le elezioni anticipate. Cronaca della folle giornata che ha bruciato il governo dei migliori e ha cambiato la politica italiana.
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La maggioranza delle larghe intese non esiste più. Il governo dei migliori è caduto. Draghi rassegnerà le dimissioni nelle mani del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Tutto lascia pensare che si andrà verso nuove elezioni. È questo in estrema sintesi l'epilogo della crisi di governo apertasi dopo la decisione del Movimento 5 stelle di Giuseppe Conte sul decreto Aiuti e le conseguenti dimissioni di Mario Draghi. È questo il risultato di un voto di fiducia che resterà nella memoria collettiva a lungo. Al netto del fatto che si sia trattato di un epilogo forse inevitabile, che ha tanti responsabili e qualche colpevole.

Non è semplice provare a ricostruire cosa è successo in una giornata folle, che ha determinato la caduta del governo Draghi. Proviamo ad andare con ordine, partendo dal “come ci eravamo lasciati” alla vigilia del dibattito in Senato sul voto di fiducia. Dopo lo strappo dei 5 Stelle sul decreto Aiuti, era sempre stata prevalente la sensazione di pessimismo rispetto alle possibilità che Draghi ritirasse le proprie dimissioni.

Alla vigilia del dibattito odierno, invece, l’umore sembrava essere cambiato: la mobilitazione a sostegno dell’ex numero uno della Bce, gli appelli alla responsabilità e le perplessità dei leader di partito circa le elezioni anticipate, avrebbero dovuto consentire quella distensione necessaria per riallacciare i fili di un discorso interrotto troppo bruscamente. Del resto, si ragionava, con una maggioranza così ampia, col supporto incondizionato del Quirinale, delle cancellerie europee e dei partner internazionali, e in un contesto così complesso per il Paese, stretto fra crisi pandemica ed energetica, il Presidente del Consiglio non avrebbe potuto sottrarsi al suo compito, quello di guida dell’azione politica e di garante di nuovi equilibri. Insomma, pur nella consapevolezza delle distanze evidenti fra Draghi e i 5 Stelle (e non solo), si respirava un certo ottimismo, nella speranza che potessero bastare poche ma oculate parole, impegni di massima e buoni propositi, per siglare una nuova tregua all'interno della maggioranza. L'attesa per il discorso di Draghi al Senato ruotava intorno a questa speranza.

Il discorso di Draghi al Senato ha rotto gli equilibri

Nessuno, davvero nessuno, poteva immaginare il disastro che si stava preparando. Perché non solo Draghi ha da subito messo in chiaro di non essere disposto a valutare soluzioni alternative a un "nuovo patto di maggioranza", non solo ha evitato di cercare qualunque tipo di reale mediazione sui punti programmatici del Movimento 5 stelle, ma è riuscito nell'incredibile impresa di scontentare praticamente tutti (fan club escluso, s'intende). Lo ha fatto con un discorso brusco, autoreferenziale, aggressivo e grossolano. Un intervento preparato male e scritto peggio, nel corso del quale ha rivendicato "gli incredibili risultati ottenuti dal suo governo", ma ha anche attaccato duramente non solo i Cinque stelle, ma la Lega e in generale chiunque avesse minato la stabilità dell'esecutivo con dichiarazioni fuori linea.

Un paio di passaggi di dubbia opportunità hanno finito per irritare persino esponenti del Partito democratico e di Forza Italia. Draghi ha infatti spiegato di essere in Parlamento "solo perché gli italiani lo hanno chiesto", dicendo ai partiti che avrebbero dovuto rendere conto agli italiani in caso di voto contro il governo; con impeto ha incalzato i parlamentari sulle risposte da dare, lasciando trapelare tutta la sua insofferenza verso quel "crescente desiderio di distinguo e divisione" che a suo dire ha caratterizzato gli ultimi mesi di legislatura. Passaggi controversi, che persino Casini e Gasparri criticheranno nei loro interventi, e che leghisti e grillini interpreteranno come "richiesta di pieni poteri". La stessa Anna Maria Bernini, di Forza Italia, parlerà contrariata di "una nota di biasimo che ci ha toccato".

Le mancate aperture di Draghi a Lega e M5s

Anche andando oltre tono e atteggiamento, restano i contenuti. Draghi ha ribadito ciò di cui vi parlavamo qui: ovvero che il suo governo è nato in una fase emergenziale e con un preciso compito politico e strategico, quello di gestire la ricostruzione del Paese nel post pandemia, metterne in sicurezza i conti e portare a compimento le riforme. Condizioni che rendono impossibile, nella sua lettura, accontentarsi di maggioranze raffazzonate e divise, o peggio ancora risicate o deboli.

Il problema è che Draghi non ha voluto fare alcun passo concreto per rafforzare la maggioranza. Non ha accolto esplicitamente le richieste del M5s, né ha lasciato intravedere la possibilità di costruire una nuova maggioranza. Lo ha fatto per ragioni rispettabilissime, sia chiaro: non ha mai inteso il suo ruolo come quello di un politico o di un mediatore, ma semplicemente come quello di un civil servant garante di un patto di responsabilità fra i partiti. Il passaggio sulla gestione della crisi è particolarmente illuminante: “Non votare la fiducia a un governo di cui si fa parte è un gesto politico chiaro, che ha un significato evidente. Non è possibile ignorarlo, perché equivarrebbe a ignorare il Parlamento. Non è possibile contenerlo, perché vorrebbe dire che chiunque può ripeterlo. Non è possibile minimizzarlo, perché viene dopo mesi di strappi ed ultimatum. L’unica strada, se vogliamo ancora restare insieme, è ricostruire da capo questo patto, con coraggio, altruismo, credibilità”.

Insomma, per citare Calenda, o così o ciccia. La risposta la conoscete.

Come Lega, Forza Italia e Movimento 5 stelle hanno deciso di non votare la fiducia

Si è ben presto capito quanto le cose si fossero messe male. Draghi non solo aveva sorvolato sulle richieste dei 5 stelle (fonti vicine a Conte si dicevano deluse per "l'assenza di aperture sui nostri nove punti"), ma aveva anche indispettito la Lega. Il Carroccio ha immediatamente convocato una riunione per decidere il da farsi, cancellando tutti gli interventi dei propri senatori dalla discussione generale. Cominciava a prendere corpo l'idea di esplicitare, tramite mozione parlamentare, la richiesta di cacciare i grillini dal governo e andare avanti con Draghi a Palazzo Chigi. Malumori e tensioni anche in Forza Italia e finanche nel Pd, che assistevano esterrefatti al naufragio di ogni tentativo di mediazione.

Pressioni che ottenevano solo un minimo risultato, convincendo lo staff di Palazzo Chigi a mettere nero su bianco delle "precisazioni": "Nelle parole di Draghi nessun attacco o sfida ai partiti, ma soltanto la roadmap delle riforme necessarie". Non bastava, non poteva bastare.

E lo si capirà poco dopo, quando Romeo, della Lega, parlerà in Aula. Il senatore, non solo smonta le politiche del governo su immigrazione e fisco, ma conferma che il Carroccio voterà la fiducia solo a un governo senza i 5 Stelle. Arriverà anche una mozione, scritta da Calderoli e sottoscritta da Forza Italia, una specie di ultimatum: nella proposta di risoluzione, infatti, si considera “vincolante” per il voto di fiducia al governo la costituzione di una nuova maggioranza sul modello di quella del 14 luglio.

Finalmente, dopo ore di incredibile latitanza, si palesano anche i 5 Stelle. Tocca a Licheri mettere insieme le ragioni dell'insofferenza del suo partito, con un intervento piuttosto confuso, al termine del quale ci si divide sulle interpretazioni. Quello che appare chiaro è che nessuno dei 5 stelle firmerà una cambiale in bianco.

I draghiani sono spalle al muro. Non possono accettare l'ultimatum del centrodestra, né accontentare i 5 Stelle; i tempi serrati della discussione sono un ostacolo a mediazioni a oltranza, alla pari di quanto lo sia l'ostinazione dello stesso Presidente del Consiglio. L'ultimo disperato tentativo lo fa Bernini, chiedendo una sospensione di un'ora e mezza per continuare a trattare a oltranza. Nel frattempo, Mattarella è al telefono e prova a convincere i leader affinché evitino un salto nel buio. Vanamente.

Perché la mossa deve farla proprio Draghi, nel suo intervento prima delle dichiarazioni di voto.

La replica di Draghi: il disastro è completo

In un clima tesissimo, la replica di Draghi è stata la pietra tombale su ogni possibile ricomposizione. Teso, nervoso e profondamente contrariato dal dibattito, il Presidente del Consiglio ha liquidato con poche parole gli interventi che lo avevano preceduto, insistendo su una personalizzazione estrema, con punte di narcisismo e orgoglio. Ha difeso l'impianto del suo discorso, lasciando intendere di essersi messo a disposizione solo per venire incontro alle richieste dei cittadini. Piccolo inciso, in questi giorni sono stati bravissimi i centristi e i draghiani nell'impostare una mobilitazione a più livelli, che ha monopolizzato il dibattito pubblico ed egemonizzato la lettura della crisi di governo, ma parlare di "volere del popolo" è sembrato abbastanza azzardato.

Sia come sia, Draghi ha scelto sbrigativamente di porre la fiducia sulla mozione di Pierferdinando Casini, che diceva lapidariamente "si approvano le comunicazioni del Presidente del Consiglio". In sostanza, avanti con lo stesso governo, con dentro anche i 5 Stelle, senza stravolgimenti ulteriori. A quel punto è parso chiaro a tutti che i giochi fossero conclusi. La Lega non poteva cancellare ciò che aveva messo nero su bianco poche ore prima, ovvero il sostegno solo a un governo senza M5s. Forza Italia non poteva rompere il patto stretto con il Carroccio (e rischiare di irritare Giorgia Meloni). Ai grillini non restava che prendere atto della chiusura alle loro richieste: certo, avrebbero potuto sparigliare il campo e sostenere il governo, lasciando che fossero leghisti e forzisti a suggellare la fine della legislatura, ma sarebbe stata operazione complessa da giustificare al proprio elettorato.

Il voto è stato una mera formalità, con un piccolo brivido sul raggiungimento del numero legale. Il governo ha incassato la fiducia più inutile della storia, con 95 Sì. Il destino di Draghi, pare anche della legislatura, è segnato.

Ora tutti i partiti si preparano alla campagna elettorale, ma ognuno deve fare i conti con le macerie di una crisi gestita con un pressapochismo imbarazzante.

I Cinque Stelle devono capire come riallacciare i rapporti col Pd, ammesso che esista la possibilità di confluire nel campo largo dopo quella che viene giudicata come una "nuova prova di inaffidabilità" da parte di influenti correnti dem. Letta, dal canto suo, deve fare i conti con il fallimento di un esperimento che si era caricato sulle spalle forse con troppo zelo, ma anche con la prospettiva di dover completamente ridisegnare le strategie future del partito. A sinistra, regnano confusione e spaesamento, dopo che Leu si era gettato a capofitto nell'esperienza "dei migliori". I centristi, Di Maio compreso, sono senza una casa politica e senza un leader.

Non va molto meglio nel centrodestra. Forza Italia dovrà probabilmente fronteggiare fuoriuscite e defezioni (Gelmini lo ha già fatto), da parte di chi non si rassegna a una coalizione sbilanciata a destra. La Lega vede certamente un Salvini ringalluzzito, ma anche tensioni interne determinate dall'addio a un governo che era nato anche per garantire gli interessi di settori produttivi che incidono sul consenso in tante aree del Paese.

Ride solo Giorgia Meloni, insomma.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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