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Cosa prevede l’accordo Italia-Libia sui detenuti voluto da Meloni e perché rischia di violare i diritti umani

Firmato a Palermo e ratificato in fretta dal Senato, il trattato con la Libia rischia di trasformare la cooperazione giudiziaria in uno scambio politico, a scapito delle garanzie fondamentali. Ecco quali sono i pericoli concreti di un’intesa con un Paese fuori dallo Stato di diritto.
A cura di Francesca Moriero
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Meloni a Tripoli per rilanciare la strategia migratoria. Credit: Filippo Attili/Palazzo Chigi/LaPresse 17/07/2024
Meloni a Tripoli per rilanciare la strategia migratoria. Credit: Filippo Attili/Palazzo Chigi/LaPresse 17/07/2024

Quando nel settembre 2023 a Palermo venne siglato l'accordo di cooperazione giudiziaria tra Italia e Libia, la notizia passò quasi sotto silenzio; il trattato appariva come un atto tecnico: stabilire regole comuni per permettere ai detenuti di scontare la pena nel proprio Paese d'origine. Nulla di più, almeno all'apparenza. In realtà, già allora alcuni dettagli facevano capire che la questione non sarebbe rimasta confinata alle pagine dei resoconti diplomatici. La Libia, partner dell'Italia in questo accordo, è un Paese diviso tra fazioni, dove milizie armate controllano territori e carceri, e dove i rapporti sui diritti umani denunciano da anni torture, detenzioni arbitrarie e sparizioni forzate.

Dal cassetto del Parlamento al via libera lampo

Per mesi il testo è rimasto fermo nei cassetti di Roma. Poi, all'improvviso, ieri mattina, il Senato lo ha ratificato in meno di mezz'ora; a premere sull'acceleratore è stata la premier Giorgia Meloni, che ha voluto chiudere rapidamente un capitolo considerato strategico nei rapporti con Tripoli. Ora manca solo il voto della Camera per l'entrata in vigore definitiva.

La rapidità del sì sembra stridere con la delicatezza del tema; l'impressione delle opposizioni è infatti che il governo abbia voluto archiviare la questione senza un dibattito pubblico approfondito, riducendo a formalità una scelta che, invece, potrebbe portare con sé conseguenze rilevanti sul piano della giustizia, dei diritti umani e delle relazioni internazionali.

Cosa prevede l'intesa

In sostanza, l'accordo stabilisce che un detenuto libico in Italia, o un detenuto italiano in Libia, possa chiedere di essere trasferito nel proprio Paese per finire di scontare la pena. Perché ciò avvenga servono però tre condizioni:

  1. La condanna deve essere definitiva;
  2. Il reato deve essere riconosciuto come tale da entrambi gli ordinamenti;
  3. Il detenuto deve esprimere consenso al trasferimento.

Fin qui, la formulazione sembra ispirata a principi di cooperazione e rispetto delle garanzie individuali, ma è nelle clausole successive che emergono le criticità; l'accordo, infatti, prevede che nei casi in cui la pena si concluda con l'espulsione, si possa attivare una procedura di rimpatrio forzato. Un dettaglio che apre la strada a interpretazioni estensive e che potrebbe trasformare la "scelta volontaria" in un automatismo.

Il nodo del consenso

Il punto più controverso è dunque quello del consenso: in teoria, nessun trasferimento dovrebbe avvenire senza l'ok del detenuto. Ma quanto può valere un "sì" espresso all'interno di una prigione libica? In un contesto in cui i detenuti subiscono quotidianamente violenze, torture e minacce, parlare di libertà di scelta rischia di essere poco più che una finzione. Il pericolo è sostanzialmente che il consenso venga estorto o imposto, trasformando un principio di tutela in un meccanismo di facciata; è la differenza tra una clausola scritta sulla carta e la sua applicazione in un contesto dove lo Stato di diritto è assente.

I rischi

Oltre alla questione del consenso, l'accordo nasconde una serie di altri rischi concreti, che sembrano andare ben oltre le intenzioni dichiarate e che potrebbero toccare direttamente i diritti fondamentali delle persone coinvolte:

  • Condizioni di detenzione: le carceri libiche sono state più volte descritte come luoghi di tortura, stupri e violenze sistematiche; trasferire detenuti dall'Italia significherebbe esporli a un destino che viola apertamente le convenzioni internazionali sui diritti umani.
  • Perdita di controllo: una volta trasferito il detenuto, l'Italia non avrebbe alcun potere di monitorare cosa accade dopo. Nessuna garanzia di accesso indipendente, nessuna certezza sulle condizioni effettive.
  • Strumento di pressione: il trattato potrebbe trasformarsi in un'arma di ricatto diplomatico; la Libia ha già dimostrato di saper usare il tema dei migranti come leva nei rapporti con l'Europa; i detenuti rischierebbero di diventare un ulteriore tassello di questa dinamica.

Le radici del trattato

Per capire le origini dell'accordo bisogna però tornare indietro all'estate 2023, quando il presidente della Camera libica, Aguila Saleh, chiese al ministro della Giustizia italiano Carlo Nordio di riaprire il dossier di cinque cittadini libici condannati in Italia a trent'anni di carcere. La condanna riguardava la cosiddetta "strage di ferragosto" del 2015: un viaggio della speranza finito in tragedia, con 49 persone migranti, partite dalla Libia, morte asfissiate nella stiva di un barcone a poche miglia da Lampedusa; allora cinque scafisti libici furono arrestati e condannati in Italia a 30 anni. Quella richiesta politica aprì un fronte delicatissimo: da un lato la volontà libica di riportare a casa i propri connazionali condannati; dall'altro la necessità dell'Italia di non incrinare i rapporti con un partner già instabile ma strategico sul fronte migratorio ed energetico. L'accordo di Palermo è nato proprio in questo contesto, e cioè più come strumento di mediazione politica che come iniziativa di cooperazione giudiziaria pura, in continuità con precedenti intese tra Italia e Libia, come il discusso Memorandum del 2017.

Il precedente: il caso Almasri

A questo si aggiunge la vicenda recente del generale Njeem Osama Almasri, accusato di torture nei centri di detenzione libici. Arrestato in Italia, è stato riconsegnato (con un volo italiano) a Tripoli in tempi rapidissimi, in assenza di un accordo già operativo. La scelta del governo Meloni ha sollevato fortissime polemiche, perché sembrava motivata più da pressioni politiche e da esigenze diplomatiche che da un iter giudiziario trasparente. Il caso di Almasri dimostra che la Libia è già in grado di condizionare le decisioni italiane, e che la cooperazione giudiziaria rischia di trasformarsi in un terreno di scambio politico piuttosto che in un quadro regolato da principi di diritto.

Il Parlamento spaccato

In Senato, il trattato è stato approvato con una netta spaccatura politica: la maggioranza l'ha difeso come un passo avanti nelle relazioni bilaterali con la Libia, parlando di "cooperazione rafforzata" e di "nuove opportunità di dialogo". Le opposizioni, al contrario, hanno bocciato l'accordo definendolo "inaccettabile": un'intesa che, denunciano, tratta i detenuti come pacchi da spedire, ignorando volutamente le condizioni disumane delle carceri libiche. Questa contrapposizione politica riflette due visioni inconciliabili: da una parte l'approccio pragmatico, che considera prioritario mantenere un rapporto solido con Tripoli, anche a costo di "qualche compromesso sui diritti". Dall'altra c’è chi rivendica la necessità di difendere principi fondamentali come lo Stato di diritto, la dignità della persona e il rispetto delle convenzioni internazionali.

La ratifica-lampo del Senato non cancella insomma le domande di fondo, che restano tutte sul tavolo: si può davvero parlare di "cooperazione giudiziaria" con un Paese dove la giustizia è in mano alle milizie armate? È credibile la clausola del consenso, se applicata in un contesto dove i diritti umani sono sistematicamente violati? E, poi, l'Italia è pronta ad assumersi la responsabilità morale e politica delle conseguenze che potrebbero derivare da questo accordo?

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