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Opinioni

Con l’emergenza immigrazione il governo fa propaganda e ammette il proprio fallimento

Su impulso dei ministri Musumeci e Piantedosi, l’esecutivo ha affidato alla Protezione civile la gestione del sistema di accoglienza, ammettendo implicitamente la propria incapacità in materia e ignorando l’inadeguatezza degli interventi d’urgenza per risolvere questioni sociali complesse.
A cura di Roberta Covelli
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Il Consiglio dei ministri ha deliberato lo stato di emergenza nazionale per sei mesi in materia di immigrazione, alla luce dell’incremento degli arrivi negli ultimi mesi, o meglio, usando una "formula tecnica" di emergenza in assenza comunque di una "emergenza atecnica", per citare il ministro Piantedosi. La presidente Meloni ha spiegato che la decisione arriva "per dare risposte più efficaci e tempestive alla gestione dei flussi". Questa scelta, però, ha diverse implicazioni, che lasciano intravedere, da un lato, la certificazione del fallimento del governo nell’affrontare la situazione e, dall’altro, un approccio emergenziale che si adatta da sempre alla propaganda della destra.

L'Emergenza Nord Africa con il governo Berlusconi

Non è la prima volta che un governo delibera lo stato di emergenza per gestire flussi migratori. L’ultimo caso risale al 2011 e, anche in quell’occasione, si trattava di un esecutivo di destra: il 6 aprile 2011 il governo Berlusconi dichiarò l’emergenza Nord Africa, che fu poi prorogata dal governo Monti in diverse occasioni fino alla sua conclusione, nel 2013.

Un decennio dopo, i giudizi su quell’operazione sono tutt’altro che positivi. L’approccio emergenziale può infatti impedire una gestione politica lungimirante di fenomeni sociali come l’immigrazione: l’arrivo di migranti e profughi all’indomani delle Primavere Arabe (e delle repressioni e restaurazioni che ne seguirono) fu gestito in maniera differente, su base quasi casuale, con persone inserite nel sistema di accoglienza e altre invece abbandonate senza alcun percorso di integrazione. Questi problemi, oltre che sui diritti delle persone e sul benessere della comunità, hanno anche risvolti politici ed economici, come fatto notare al tempo da diversi studiosi.

La gestione emergenziale dell’immigrazione sottrae infatti importanti risorse economiche al controllo contabile, o, per meglio dire, rende più difficile la ricostruzione e la trasparenza delle spese. La cosa più grave è che sottrae tali spese ad una normale programmazione statale di risorse ed interventi.

Per lo stato di emergenza deliberato dal governo Meloni sono già stati stanziati cinque milioni di euro, in attesa delle valutazioni finanziarie sulle effettive esigenze di spesa.

Dall’opposizione al governo: emergenza e protezione civile

Se dovessimo basarci sulle parole pronunciate da Giorgia Meloni quand’era all’opposizione, dovremmo preoccuparci della "deriva liberticida" del governo: nel 2020, in piena pandemia, di fronte alla proroga dello stato di emergenza, la leader di Fratelli d’Italia accusava infatti il governo Conte-bis di usare "poteri speciali", richiesti "con la scusa del coronavirus". Era davvero così? No.

Lo stato di emergenza è previsto dal Codice della Protezione civile e riguarda, per l’appunto, i poteri della protezione civile nella gestione di emergenze locali o nazionali derivanti da eventi calamitosi. Quindi, ad esempio, durante l’emergenza, al capo del dipartimento di protezione civile è conferito un potere di ordinanza, anche in deroga alla legge, purché nel rispetto dei principi dell’ordinamento e nei limiti degli stanziamenti previsti.

La dichiarazione dello stato di emergenza non riguarda quindi né il Parlamento né il Governo: il procedimento di formazione e approvazione delle leggi resta invariato, nessuno riceve "pieni poteri", né Conte a suo tempo, né Meloni ora.

Questo non significa, però, che la scelta di dichiarare lo stato di emergenza sia giusta, né tanto meno innocua.

Lo stile governativo e i rischi di forzature istituzionali

La dichiarazione, apparentemente confusa, di Matteo Piantedosi è piuttosto rivelatoria: rispondendo alle critiche, il ministro ha confermato che la deliberazione governativa è solo una "formula tecnica", ma che non c’è un "allarme immigrazione". Demandando alla protezione civile la gestione dei flussi migratori, però, il governo sta implicitamente ammettendo di non essere in grado di gestire un sistema di accoglienza, che dovrebbe dipendere dalla programmazione del Viminale, e che risponde a leggi scritte e varate dalla destra.

Quindi, delle due l’una: o c’è un allarme immigrazione, e allora è sensato deliberare lo stato di emergenza, confidando sulla struttura organizzativa della protezione civile, ma quindi il ministro Piantedosi mente, oppure non c’è un’emergenza in materia, ma allora significa il governo Meloni è incapace di programmare e gestire il fenomeno con gli strumenti ordinari.

In ogni caso, anche se, come si è visto, la deliberazione dello stato di emergenza non assegna poteri al governo intero, ma solo al dipartimento di protezione civile, è anche vero che una dichiarazione simile può legittimare ancor più l’uso, già frequente e incisivo, della decretazione d’urgenza da parte dell’esecutivo, esautorando ancora una volta il Parlamento dal suo ruolo legislativo.

Tra stato di eccezione e shock economy: la percezione dell’immigrazione

Ma i rischi, oltre che istituzionali, sono politici e culturali. La percezione dei fenomeni è infatti spesso condizionata dal modo in cui questi vengono raccontati: secondo le statistiche Ipsos sugli errori di percezione, l’Italia è tra le prime nazioni per misperception index, cioè per la distanza tra la percezione dei fenomeni e i dati reali. Interviste e questionari, somministrati in 38 paesi, riguardano diversi temi sociali, e le rappresentazioni errate sono piuttosto frequenti, e profonde: tra queste c’è anche il modo in cui è percepita l’immigrazione.

Se poi, alle personali impressioni sfalsate, si aggiunge la prassi di affrontare un fenomeno sempre in ottica securitaria ed emergenziale, le possibilità di elaborazione culturale si riducono ulteriormente. Come teorizzato da Naomi Klein, infatti, il senso continuo di insicurezza e di stress psicologico può rendere accettabili decisioni politiche ed economiche che sarebbero altrimenti contestate.

Pur escludendo che il governo voglia imporre politiche criminali in materia, l’uso dei meccanismi emergenziali impedisce comunque, anche al più onesto degli amministratori pubblici, di gestire i flussi migratori con lungimiranza: l’immigrazione è infatti un fenomeno umano e sociale, storicamente attestato in qualunque epoca e per diverse ragioni, e tutelato dall’affermazione di due diritti umani, quello alla protezione, con il diritto di asilo, e quello alla libertà di movimento, che va quindi gestito tenendo conto della complessità di diritti, doveri e interessi che sono coinvolti dalla (libera) circolazione umana.

In caso di calamità, con un inaspettato e ingente arrivo di persone, deliberare lo stato di emergenza può certo essere una soluzione temporanea, per il periodo necessario a chiarire dimensioni ed esigenze, demandando l’organizzazione di soccorso e assistenza alla protezione civile (che è nata proprio per coordinare interventi d’urgenza). Ma gli interventi d’urgenza raramente sono adatti per affrontare la complessità, per offrire soluzioni strutturali, di sistema, mentre appaiono perfetti per rafforzare certi tipi di propaganda.

La propaganda vittimistica dei nuovi patrioti di governo

L’impressione, infatti, è che l’approccio emergenziale faccia comodo al governo e alle forze politiche che lo sostengono. Da un lato, infatti, si certifica una difficoltà, uno scenario tanto arduo da gestire da dover richiedere la deliberazione dello stato di emergenza: il vittimismo di Giorgia Meloni, sul punto, era emerso già nel discorso per la fiducia alle Camere, in cui definiva complicato il contesto in cui ci troviamo, "forse il più difficile dal dopoguerra", un’affermazione che ha ripreso anche il mese scorso, spiegando che "si trova a guidare una Nazione come l'Italia, forse nel suo momento più complesso dalla fine dell'ultimo conflitto mondiale".

Dipingendo lo scenario in questo modo, si drammatizza la realtà, spesso attizzando gli istinti più bassi, di paura e di rabbia. Nel contempo, però, ci si costruisce un alibi efficace: le promesse mancate e il benessere ridotto non vengono attribuiti all’incapacità politica di analizzare e gestire i propri poteri, ma dal contesto difficile.

Ed è proprio l’elemento della responsabilità che il vittimismo riesce a plasmare. Il governo Meloni è composto di esponenti e forze politiche che hanno spesso, se non sempre, avuto ruoli esecutivi: la Lega ha sostenuto due dei tre governi della scorsa legislatura, il ministro Piantedosi ha da anni funzioni al Viminale, Giorgia Meloni è stata al governo tre anni, da ministra più giovane della storia d’Italia, e vanta una militanza politica di decenni, che dovrebbero averle garantito almeno una capacità di analisi della realtà e di elaborazione di soluzioni che non sembra mostrare in quest’approccio di governo che, quando non cerca un nemico qualunque, sta a metà tra il vittimismo deresponsabilizzante e l’interventismo emergenziale.

E mentre lo stato di emergenza certifica l’inadeguatezza di questa destra nella programmazione di interventi complessi, la drammatizzazione del contesto permette di esaltare qualunque azione il governo compia, anche se gli interventi in materia di immigrazione sono stati finora quanto meno discutibili, dalla creazione del nuovo reato contro gli scafisti alla criminalizzazione delle Ong e del soccorso in mare, arrivando perfino alla prospettiva di cancellare la protezione speciale, spingendo ancora le persone nell'invisibilità.

Una volta costruita una cornice narrativa di emergenza, insomma, ogni azione di governo può essere dipinta come provvidenziale, svolta da novelli salvatori della patria, anche se i wannabe-patrioti di governo, al momento di gestire la questione migratoria (cioè proprio il tema che hanno cavalcato per ottenere consenso), non hanno soluzioni migliori del coinvolgimento della protezione civile.

Le conseguenze della gestione emergenziale

Ma davvero la deliberazione dello stato di emergenza è, come sembra, la certificazione dell'incapacità di gestire i flussi migratori? Sul serio, dopo le criticità emerse con l'Emergenza Nord Africa, i membri del governo Meloni sono convinti di poter affrontare una questione sociale con interventi d'urgenza da parte della protezione civile? L'alternativa all'inadeguatezza politica è ancor più inquietante, perché perfettamente in linea con la propaganda della destra, ed è la piena consapevolezza che gli strumenti di emergenza non sono idonei, ma possono anzi essere dannosi, per garantire soluzioni di sistema.

La gestione emergenziale è una soluzione tampone per eventi inaspettati, e dovrebbe essere temporanea, in attesa della risoluzione del problema o della gestione sistematica di una questone. Quando invece fenomeni sociali come l'immigrazione vengono gestiti in questo modo, si rischia di innescare un circolo vizioso: la protezione civile, addestrata alla logistica d'emergenza, funzionale a trarre in salvo le persone dando assistenza e soccorso immediati, non ha le competenze per garantire il funzionamento di un sistema di accoglienza, che coinvolga tanto le comunità locali quanto le persone immigrate. Il risultato è la segregazione di chi arriva, l'aumento delle difficoltà di integrazione e inclusione, con il rischio di incancrenire i conflitti sociali e le disuguaglianze. A banchettare su questo scenario sarà chi potrà poi lamentarsi di un contesto complicato, forse il più difficile dal secondo dopoguerra (cit.), e proporre soluzioni di emergenza, che non risolvono i problemi, ma nutrono la propaganda e portano voti.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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