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Il nuovo reato contro gli scafisti è l’ennesima norma penale illogica del governo Meloni

Dalle pretese universalistiche alla severità repressiva, il delitto introdotto dal Decreto immigrazione, dopo il Consiglio dei Ministri a Cutro, è un atto di propaganda a danno del principio di ragionevolezza.
A cura di Roberta Covelli
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Mentre il mare restituisce ancora i corpi delle persone annegate nel naufragio del 26 febbraio, il governo Meloni si è riunito a Cutro, per discutere, e approvare, l’ennesimo decreto di questa legislatura. Tra le diverse misure, il provvedimento prevede anche disposizioni in materia penale, con l’inasprimento della repressione per reati già previsti dal testo unico sull’immigrazione e con l'introduzione di un nuovo delitto.

Anche la forma è sostanza: inventarsi reati per decreto è un problema

Il decreto legge firmato da Giorgia Meloni, e dai ministri Piantedosi, Nordio, Tajani, Calderone, Lollobrigida e Musumeci, introduce infatti nel testo unico l’articolo 12-bis, che punisce il reato di "Morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina". Si tratta di un nuovo delitto punito molto severamente, visto che la fattispecie di base prevede la reclusione tra venti e trent’anni. Presenta però molti problemi, di metodo e di merito.

Fin qui, l’esecutivo sta governando a colpi di decreto legge, cioè di provvedimenti governativi che dovrebbero essere adottati solo in straordinari casi di necessità e urgenza. La prassi, già di per sé preoccupante, diventa particolarmente problematica quando riguarda l’introduzione di nuovi reati: un decreto è infatti vigente fin da subito, anche se il Parlamento non si è ancora espresso e, in caso di mancata conversione, il provvedimento decade fin dal principio. Restano però irreversibili gli effetti sulla libertà personale che, ad esempio con le misure cautelari, vengono prodotti da un decreto legge.

Dal globo terracqueo ai concetti di dolo e colpa, tra propaganda e reato

Un’altra anomalia del nuovo delitto riguarda la sua applicazione territoriale, sintetizzata dalle dichiarazioni di Giorgia Meloni in conferenza stampa: «Quello che vuole fare questo Governo è andare a cercare gli scafisti lungo tutto il globo terracqueo».

Ma davvero possiamo punire dei reati commessi fuori dal territorio nazionale? Sì e no. La questione è molto più complessa delle promesse di blocchi navali o task-force in acque internazionali, dal momento che, se è vero che un reato commesso da uno straniero all’estero può essere punito in caso di disposizioni speciali, queste disposizioni speciali devono avere se non altro una coerenza e una ragionevolezza che il nuovo delitto non sembra proprio avere.

C’è infatti una questione centrale, sia nella comunicazione di Meloni, sia nel testo del nuovo illecito: il dolo (o la sua assenza) nella condotta. Di fronte alle accuse di non aver fatto abbastanza, la presidente del Consiglio ha usato un argomento fantoccio, accusando i giornalisti e gli oppositori di attribuire all’esecutivo una volontarietà nella strage. In realtà, nel nostro sistema penale (e, prima ancora, nella logica delle nostre relazioni sociali) non c’è una dicotomia tra dolo e totale innocenza, ma esiste anche il concetto di colpa, che resta una responsabilità, anche se meno grave rispetto a quella dolosa, dal momento che l’evento dannoso, pur previsto, non era voluto, e deriva da negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza delle regole.

Quel che propagandisticamente viene enfatizzato dalla presidente Meloni per escludere qualunque responsabilità del governo è un concetto che torna anche nel nuovo, arzigogolato, reato. Il delitto di "morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina" è infatti un illecito punito con un livello di pena tipico dei reati dolosi, ma l’evento in base al quale si verifica il reato deve essere una "conseguenza non voluta" del tentativo di ingresso illegale nel territorio dello Stato.

La contabilità del reato e i rischi di applicazione paradossale

La norma del decreto elenca una serie di ipotesi ragionieristiche che accostano l’entità della "conseguenza non voluta" con il livello di pena prevista. La reclusione da 20 a 30 anni è prevista sia in caso di morte di più persone, sia in caso di morte di una o più persone e di lesioni gravi o gravissime. Se muore una persona sola, la pena è da 15 a 24 anni. Se nessuno muore ma una o più persone subiscono lesioni gravi o gravissime, la pena va da 10 a 20 anni.

Il decreto vieta inoltre l’applicazione di attenuanti prevalenti rispetto alle aggravanti. Nel nostro sistema penale, esistono infatti circostanze in presenza delle quali si ritiene che un reato vada punito più o meno severamente, e queste circostanze, di norma, si compensano tra loro. In questo caso, invece, le attenuanti non possono riequilibrare le aggravanti, che vengono applicate a priori, mentre le diminuzioni si applicano solo dopo (e quindi in quota ridotta).

Basta allora sfogliare il codice penale per notare il paradosso: con l’introduzione di un delitto simile, a uno scafista converrebbe dichiarare di aver voluto uccidere le persone morte o ferite nella traversata. Poniamo il caso più frequente: lo scafista imputato per il nuovo reato altri non è che un migrante come gli altri, costretto dai trafficanti e dallo spirito di sopravvivenza a guidare un natante. Durante il naufragio muoiono alcune persone: se la loro morte è una "conseguenza non voluta" dell’ingresso illegale, il rischio è una pena tra venti e trent’anni. Se invece negasse l’intenzione migratoria, dichiarando di aver voluto uccidere le vittime, il minimo della pena sarebbe ventun anni, ma si potrebbero applicare le attenuanti, che sono invece estremamente ridotte per il nuovo delitto.

Il caso delle lesioni personali è ancora più assurdo: dichiarando il dolo, cioè confessando di aver provocato intenzionalmente le lesioni, se queste fossero gravi la pena andrebbe da tre a sette anni, se fossero gravissime da sei a dodici anni. La pena è invece tra dieci a vent’anni se le lesioni non sono volute ma avvengono durante un tentativo di migrazione: per capirci, le lesioni colpose (cioè le lesioni arrecate senza volontà) sono punite con la reclusione per massimo due anni, cioè un decimo di quanto previsto dal nuovo delitto.

Stratificazioni e sovrapposizioni, il nuovo delitto è solo populismo repressivo

Oltre all’introduzione del reato per decreto, alle sue pretese universalistiche e all’estrema severità della repressione, bisogna notare ancora una volta che l’intervento è più una bandiera propagandistica da piantare che un’effettiva necessità dell’ordinamento.

Come già avvenuto per il decreto anti-rave, infatti, la nuova norma incriminatrice punisce fatti che già erano illegali e punibili: chi "promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri" o comunque favorisce l’immigrazione clandestina soggiace già alle pene previste dal testo unico sull’immigrazione. Nel caso di ingresso di più di cinque persone o qualora gli stranieri trasportati siano posti in condizioni di pericolo, la reclusione va da 5 a 15 anni (pena ora aumentata dal nuovo decreto da 6 a 16 anni). Si potrà dire che il governo vuole punire situazioni più gravi, in cui dall’ingresso illegale derivino conseguenze di morte o di lesioni, ma per quel caso esistono comunque le regole generali del codice penale, tra cui la specifica norma relativa al caso di "morte o lesioni come conseguenza di altro delitto". In base all’art. 586 c.p., infatti, seguendo le regole sul concorso di reati, si aggiunge all’incriminazione per il reato doloso anche la pena per omicidio colposo o lesioni colpose.

L’introduzione di questo nuovo delitto è insomma una stratificazione normativa, una pleonastica complicazione del sistema penale, un atto di propaganda a danno del principio di ragionevolezza, che in uno Stato di diritto dovrebbe essere alla base di ogni azione di governo e di legislazione.

Ridurrà i naufragi? Eliminerà l’immigrazione illegale? Certo che no, perché non basta fare la faccia scura, ed esibirsi nel populismo penale, per cambiare la realtà, specie quando la repressione riguarda bisogni umani.

Se domani, per assurdo, si decidesse che l’acqua è vietata e che bere è reato, smetteremmo di idratarci per paura del carcere? Continueremmo a bere, perché l’acqua serve, è una necessità umana, vitale. Al più, si creerebbe un sistema clandestino per poter bere di nascosto, senza essere scoperti e puniti, probabilmente facendo guadagnare i più cinici sul soddisfacimento di un bisogno universale.

Per i reati relativi all’immigrazione il ragionamento è lo stesso: l’unico effetto logico possibile per un inasprimento simile sarà l’aumento del prezzo di viaggio e l’intensificarsi dei rischi della traversata. Ma nessuno che abbia bisogno di muoversi, che sia per guerra o per fame, resta in un lager libico o in un campo profughi somalo solo perché il governo italiano, per far propaganda dopo un naufragio, introduce un’altra norma inutile e illogica.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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