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Opinioni

L’emendamento con cui il governo Meloni attacca ancora i diritti dei lavoratori

Una nuova norma al decreto Ilva, proposta dal relatore di Fratelli d’Italia, punta a restringere i tempi per far valere i crediti da lavoro, a limitare il diritto a una retribuzione dignitosa e a indebolire il ruolo della magistratura nel garantire la giustizia sociale.
A cura di Roberta Covelli
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L'attacco ai diritti dei lavoratori da parte del governo Meloni arriva stavolta diretto e chirurgico: un emendamento. A firmarlo è il senatore di Fratelli d’Italia Salvo Pogliese, relatore del disegno di legge di conversione del decreto Ilva. L’articolo 9-bis riguarda "Termini di prescrizione e di decadenza in materia di crediti di lavoro e determinazione giudiziale della retribuzione dei lavoratori".

Al di là dei tecnicismi, significa scardinare due tutele fondamentali: la possibilità per i lavoratori di far valere i propri diritti senza temere ritorsioni durante il rapporto di lavoro e quella di ottenere in giudizio una paga dignitosa. In assenza di interventi sul salario minimo legale, affossati anche da questo governo, la prospettiva di portare davanti al giudice la propria busta paga, e di ottenere così una condanna al pagamento del giusto salario e delle differenze retributive, resta l'unico baluardo per chi viene sfruttato e sottopagato.

Anche questa tutela residua è troppo per la destra al governo, che intende anticipare la decorrenza della prescrizione, imporre nuovi obblighi giudiziali a pena decadenza e persino impedire ai tribunali di dare tutela in caso di retribuzioni troppo basse, limitando le ipotesi di intervento e addirittura vietando di condannare il datore di lavoro al pagamento degli arretrati, anche di fronte a una retribuzione insufficiente.

La proposta è potenzialmente incostituzionale e sicuramente dannosa per chi lavora: vediamo nel dettaglio perché.

Da quando decorre la prescrizione? Governo contro Cassazione

Il primo comma riguarda la prescrizione dei crediti da lavoro. Il termine di prescrizione è il tempo entro il quale si può far valere un diritto. Nel caso dei crediti da lavoro, come ad esempio retribuzioni non corrisposte o pagate solo parzialmente, il periodo è di cinque anni. Ma da quando decorre questo termine?

Corte di Cassazione e Corte Costituzionale hanno, negli anni, elaborato un’argomentazione molto logica: più il lavoro è stabile, più si presume che il lavoratore sia in grado di richiedere il rispetto dei suoi diritti. Quindi, per i dipendenti a cui si applicava l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori nella sua formulazione originaria, cioè quei lavoratori che, se ingiustamente licenziati, potevano fare causa per ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro, il periodo di prescrizione dei crediti iniziava dal momento in cui il credito sorgeva. Se un lavoratore non riceveva somme che gli sarebbero spettate, per far valere il suo diritto aveva cinque anni di tempo dal momento del mancato pagamento.

L’articolo 18, però, è stato prima modificato e depotenziato dalla riforma Fornero, poi accantonato dal Jobs act, con l’introduzione del cosiddetto contratto a tutele crescenti. Queste due riforme, in misura diversa, hanno ridotto la stabilità del lavoro, limitando le ipotesi di tutela reale, ossia di reintegrazione nel posto di lavoro.

La Cassazione ha quindi chiarito in più occasioni che, dopo queste riforme, con la progressiva compressione della tutela reintegratoria, il rapporto di lavoro a tempo indeterminato non è più considerato stabile e il lavoratore può quindi non essere in grado di esercitare i propri diritti al meglio durante il rapporto professionale, per il timore di ritorsioni che lo porterebbero a perdere l'impiego. Per questo, la prescrizione per i crediti da lavoro non può più decorrere dal momento in cui sorgono i diritti, ma deve essere calcolata dal momento in cui termina il rapporto di lavoro.

Con un semplice comma, l’emendamento della destra al governo intende cancellare questa consolidata argomentazione giuridica, imponendo che la prescrizione quinquennale decorra già in costanza di rapporto, a prescindere dal timore (e dal rischio) di ritorsioni.

L’apparente illogicità dell’obbligo di far causa per ottenere i propri diritti

Non basta questo primo restringimento degli spazi di tutela: il secondo comma dell’emendamento Pogliese è pure peggio. La proposta prevede infatti l’obbligo, per il lavoratore che abbia interrotto la prescrizione del suo credito, di depositare un ricorso giudiziale entro 180 giorni, a pena decadenza. La decadenza significa la perdita di un diritto, che in questo caso è il diritto a un credito retributivo, cioè al denaro che sarebbe dovuto al dipendente per il lavoro che ha svolto.

Proviamo a chiarire con un esempio. Il lavoratore si accorge che non gli sono state pagate somme che gli spettano. Superando il timore di ritorsioni (visto che non ha più una tutela reale contro il licenziamento ingiustificato), invia una raccomandata al datore di lavoro, con la quale segnala la questione e richiede il pagamento dovuto. Se però entro sei mesi il lavoratore non fa causa, perde del tutto il diritto a ricevere quelle somme.

A prima vista, la norma sembra illogica: mentre da anni si cerca di ridurre il contenzioso giudiziario, qui si impone ai lavoratori di fare causa entro sei mesi, pena la perdita del diritto. Ma una logica c’è, ed è inquietante: scoraggiare le rivendicazioni, sapendo che nessuno si rivolgerebbe ai tribunali già intasati per cifre modeste, anche se dovute. E non si tratta soltanto di mancata tutela dei diritti, ma della loro cancellazione per legge, visto che l’assenza del ricorso giudiziario provoca la decadenza dal diritto del lavoratore.

L’attacco all’effettività della Costituzione: la presunzione di adeguatezza

Già quanto spiegato fin qui rappresenta una minaccia all'effettività dei diritti di chi lavora, come già denunciato da autorevoli giuslavoristi negli ultimi giorni, ma l'emendamento Pogliese non si ferma a prescrizione e decadenza. Il terzo comma del proposto articolo 9-bis arriva al punto di impedire ai giudici di dare tutela a chi è stato sottopagato.

In Italia, infatti, non esiste il salario minimo legale. O, meglio, non esiste una legge che preveda la paga minima, ma esiste l'articolo 36 della Costituzione che, al primo comma, recita:

Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.

Questa garanzia costituzionale ha sopperito e sopperisce, pur in maniera limitata, all'assenza di una legge sul salario minimo e cerca di correggere anche quei contratti collettivi che non garantiscono una paga oraria dignitosa. Il lavoratore che ritiene di essere sottopagato può infatti ricorrere al giudice che, verificata l'inadeguatezza del salario, ridefinisce lo stipendio secondo equità, attuando il principio costituzionale, e condannando il datore di lavoro a pagare le differenze retributive.

La proposta del senatore di Fratelli d'Italia scardina proprio questo meccanismo di tutela costituzionale. Il terzo comma dell'emendamento prevede infatti che la retribuzione "si presume proporzionata e sufficiente ai sensi dell'articolo 36 della Costituzione". Questa presunzione può essere superata solo qualora "venga accertata la grave inadeguatezza dello standard retributivo", tenendo conto anche "dei livelli di produttività del lavoro" (un indicatore che tra l'altro riguarderebbe l'organizzazione dell'impresa, più che l'impegno dei dipendenti).

La nozione di "grave inadeguatezza" introduce un filtro tanto vago quanto arbitrario, che rischia di svuotare di efficacia l’articolo 36 della Costituzione. Il risultato è che molte retribuzioni basse, pur ingiuste, resteranno fuori da ogni correzione. È un cambio di paradigma pericoloso: il principio costituzionale diventa un’eccezione rara, da usare solo nei casi estremi. E anche in quei casi, il comma successivo taglia comunque la possibilità di ottenere davvero giustizia.

Gravemente inadeguato ma impunito: il divieto di condanna agli arretrati

Il quarto comma dell’emendamento completa il disegno: anche quando il giudice accerta che il salario è gravemente inadeguato, e ridefinisce quindi una retribuzione proporzionata e sufficiente, non può comunque condannare il datore di lavoro a pagare le differenze retributive pregresse, purché questi abbia applicato un contratto collettivo nazionale, territoriale o aziendale stipulato ai sensi dell’art. 51 del d.lgs. 81/2015.

Basta quindi un contratto aziendale per mettere in salvo ogni violazione passata del diritto a una retribuzione dignitosa. Il datore che per anni ha pagato meno del minimo costituzionale resterà comunque impunito, purché formalmente allineato a un contratto collettivo. Anche se la paga era gravemente inadeguata, anche se il giudice lo accerta, anche se il lavoratore ha regolarmente svolto l’attività: il risarcimento delle differenze retributive viene escluso per legge.

L’effetto è ancora più paradossale se si immagina una persona sfruttata che, concluso il rapporto di lavoro, si rivolga al giudice: non potrà ottenere nulla per il periodo già trascorso, neppure dopo un accertamento pieno. Se l’unica prospettiva è l’adeguamento del salario per il futuro (o, nella migliore delle ipotesi, dal momento della diffida in poi), fare causa diventa privo di senso: il lavoro già svolto, anche se sottopagato, resta senza stipendio dignitoso.

Tra retorica e fatti: a chi conviene la strategia dell'estrema destra sul lavoro

Un progetto simile, che condensa in quattro commi l'attacco alle tutele residue verso chi lavora, non è che una conferma della concezione che il governo Meloni ha del mondo del lavoro. Il rispetto dei diritti della classe lavoratrice non è una priorità di questa destra e i fatti di questi primi 1000 giorni di governo lo dimostrano: dall'affossamento delle proposte sul salario minimo alle bugie sulle assunzioni di nuovi ispettori del lavoro, dalla precettazione illegittima degli scioperi alle scelte retoriche di strumentalizzazione del Primo maggio, tutto concorre a una visione del lavoro e del diritto contraria a quel che prevede la nostra Costituzione socialdemocratica e antifascista.

L'attacco non riguarda soltanto chi lavora e intende rivendicare i propri diritti, ci sono altre due vittime di questo emendamento e di questa strategia politica: le imprese e la giurisprudenza.

Oltre ai lavoratori sfruttati, se passasse un emendamento simile, il danno riguarderebbe anche le imprese che non sfruttano. Un sistema che favorisce l’abuso, che limita la possibilità di rivendicare e tutelare i diritti, crea un mercato falsato e drogato: se la competitività si gioca sul costo del lavoro (cioè sulla povertà dei lavoratori), gli imprenditori che si rifiutano di diventare sfruttatori si trovano a competere in condizioni di palese concorrenza sleale, mentre chi sottopaga i dipendenti gode di una prospettiva di impunità.

Sullo sfondo continua poi l'attacco sistematico alla magistratura. L'emendamento Pogliese appare incostituzionale: nel metodo, perché introduce una norma disomogenea in sede di conversione del decreto Ilva; nel merito, perché è una proposta irragionevole e contraria a diritti costituzionalmente garantiti, su cui la giurisprudenza più autorevole ha ormai pacificamente pronunciato sentenze consolidate.

Ed è proprio questo il punto. Il sindacato giurisdizionale, la possibilità che la magistratura corregga quel che il mercato distorce, riportando diritti laddove c'è sfruttamento, è considerata un ostacolo da superare nella costruzione di un modello autoritario e centralizzato di gestione del potere. La proposta di legge, scavalcando le sentenze consolidate sulla tutela del salario minimo costituzionale e sui crediti retributivi, si inserisce in un disegno più ampio di riduzione dei contrappesi democratici.

Difficile non notare, in questo favore agli sfruttatori, il perseguimento dell'ulteriore obiettivo di limitare il ruolo di controllo della magistratura, riducendo la giustizia a un semplice strumento al servizio del governo e delle élite economiche. Privare i giudici della possibilità di garantire effettività ai diritti significa svuotare di contenuto l’articolo 36 della Costituzione, trasformando la legge in uno strumento di legittimazione dello sfruttamento anziché di tutela.

In questo scenario, la separazione dei poteri viene progressivamente indebolita, e il sistema democratico è messo a rischio proprio sul terreno dei diritti sociali, fondamento profondo del nostro sistema costituzionale.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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