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Poichè hanno seminato vento, raccoglieranno tempesta

Cresce la tensione sociale in tutto il Sud Europa: era inevitabile che ciò accadesse visto che da due anni accanto all’inasprimento fiscale non si riesce a varare alcun meccanismo di trasferimenti comunitari…
A cura di Luca Spoldi
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Sciopero generale, tensione e scontri a Torino

La tensione sociale torna a crescere in tutto il Sud Europa: non è solo più un problema di Grecia o di Spagna, anche in Italia l’adesione alle manifestazioni indette per protestare contro la politica del governo attuale stanno aumentando e purtroppo anche la frequenza degli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine. E’ un film che chi scrive ha già visto negli anni Settanta, un “decennio perduto” seguito agli anni del boom economico dei Sessanta che ebbe un epilogo dolorosissimo negli “anni di piombo” che nessuna persona sana di mente può augurarsi anche lontanamente che tornino in futuro. Ma “l’operazione di spremuta fiscale” che il governo Monti ha attuato fin qui da quando è in carica (così come i provvedimenti varati dal governo Samaras in Grecia o dal governo Rajoy in Spagna) e che è ormai giunto a livelli elevati (senza che questo escluda nuovi aumenti d’imposta, purtroppo) non poteva non comportare una reazione di questo tipo, che parte, guarda caso, dai giovani prima ancora che dalla classe media, forse perché i giovani si sono sentiti indegnamente presi in giro da chi da una parte non fa niente per offrire loro prospettive di benessere future e dall’altra li definisce “choosy” (avendo i propri figli già al sicuro, professionalmente parlando).

Dice un economista con cui sono spesso in sintonia come Mario Seminerio che in emergenza, stato in cui si è insediato Monti e nel quale continua peraltro a operare, “sopportato” a fatica da quegli stessi esponenti politici che hanno portato il paese nel baratro perdendo ogni traccia di credibilità internazionale, e si spera nazionale, a causa della propria ignavia e dell’esclusivo interesse a difendere privilegi e rendite di posizione delle proprie lobbies anziché cercare di delineare una politica in grado di promuovere il bene comune, sono due le “grandi vittime sacrificali per tentare di rimettere a posto i conti in maniera del tutto illusoria”: la prima è “azzerare la spesa per investimenti pubblici, ed è stato fatto”, la seconda “è alzare la pressione fiscale” come si è fatto e si continua a fare. Serve tagliare la spesa? Solo nella misura in cui si punta a riqualificare la stessa e non semplicemente si procede a tagli lineari che, se ulteriormente esasperati, finiranno col ridurre, anziché aumentare, l’output gap potenziale, ossia la capacità di crescita a lungo periodo dell’economia italiana.

Anche perché le grandi voci di spesa sono le pensioni, ma, prosegue Seminerio,  “è stata fatta la riforma delle pensioni più severa e pesante d’Europa”, tra l’altro “con un errore marchiano come quello sugli esodati”, che se vivessimo ancora in un paese con un minimo di senso della responsabilità individuale dovrebbe portare chi ha deliberato tale riforma “non accorgendosi” degli esodati a dimettersi più che a dare del “choosy” agli altri. Poi ci sono gli stipendi pubblici e già si sta tentando di tagliare (come del resto sta avvenendo anche nel settore privato), attuando una politica di deflazione salariale che porterà stipendi (e pensioni) ad essere tagliati in valore nominale, non solo in valore reale: insomma, occorrerà lavorare di più per ricevere lo stesso compenso (o si riceverà di meno lavorando in modo uguale a prima).

Ma: ma in un paese come l’Italia ad elevato indebitamento (siamo arrivati a fine settembre a 1.995,1 miliardi, 19,5 miliardi più di agosto, ennesimo record storico nominale), in cui il costo del debito resta superiore alla crescita del Pil (e lo resterà a lungo visto che il costo attualmente oscilla attorno al 5% e rischia di rimanere attorno a tale livello o poco sotto ancora parecchi mesi, mentre il Pil, “se tutto va bene” dal prossimo anno smetterà di scendere e inizierà un lento recupero, attorno allo 0,3% a fine 2013) tagliare pensioni e stipendi fa esplodere ogni rapporto di indebitamento, proprio ora che le banche stanno a loro volta continuando a tagliare il credito (e come ho spiegato ieri, in base ai numeri delle trimestrali è prevedibile continueranno a farlo ancora per un pezzo).

Ci sono altre vie di fuga? No: il costo del debito è difficilmente comprimibile se non cambia drasticamente il quadro di riferimento macroeconomico e politico (e con esso la fiducia che i mercati accordano all’Italia), l’inflazione, “classica” soluzione all’italiana degli anni Settanta e Ottanta, sta lentamente scendendo (a fine ottobre era al 2,6% annuo dal 3,2% del mese precedente) ma resta condizionata, almeno a breve, dall’andamento (volatile) dei prezzi dell’energia, delle materie prime e dei generi alimentari. In ogni caso in un sistema con una sola valuta come l’Eurozona per risolvere gli squilibri interni (che sono poi la causa che ha portato all’attuale crisi, al netto della dissipatezza e corruzione dei governi in carica fino a un anno fa nel Sud Europa) occorrerà assistere a importanti deflussi di capitale dai paesi “ricchi e virtuosi” verso gli “straccioni” della periferia tra cui l’Italia. Uno scenario poco credibile, quanto meno se si ragiona solo in termini di differenziali di potere d’acquisto, dato che richiederebbe di compensare il gap tra costo del debito e (de)crescita del Pil con un analogo differenziale tra le inflazioni dei paesi ricchi rispetto a quelli poveri.

In soldoni: se la Germania e i suoi alleati non accetteranno l’idea di meccanismi europei di trasferimento di fondi (ottenendo in cambio un controllo puntuale dell’utilizzo degli stessi), sarebbe necessario aspettare che nell’Europa “core” l’inflazione si porti attorno al 5%-6% almeno, o che in Spagna e Italia (e Grecia e Portogallo e Cipro) divenga negativa di un paio di punti almeno (così da mantenere la crescita dei prezzi tedeschi entro la “rassicurante” soglia del 2% annuo). Ipotesi altamente improbabili, anche perchè il tutto implicherebbe parallalamente un trasferimento di competitività dalle imprese tedesche a quelle del Sud Europa (e tramite tale meccanismo una graduale ripresa del mercato del lavoro, anche in Italia, dopo una prima fase di ulteriore “fuga di cervelli” dal Belpaese). Lo giudicate uno scenario probabile e semplice da realizzare?

Non lo è, basta vedere come stanno andando le discussioni attorno al budget comunitario 2014-2020. Si tratta di una montagna di soldi che alcuni paesi vorrebbero ridurre, altri mantenere inalterata, altri ancora se possibile aumentare a proprio vantaggio. Ognuno tira acqua al suo mulino come ovvio, così l’attuale presidente del Consiglio Ue, Herman Van Rompuy, ha proposto una mediazione suggerendo un taglio di circa 80 miliardi di euro (di cui 25,5 miliardi sarebbero sottratti alla politica agricola comunitaria) rispetto ai 1091 miliardi previsti dalla Commissione Ue. Cifra rispetto alla quale l’Italia propone un taglio di 1-2 miliardi, Cipro (che ha la presidenza di turno dell’Unione) suggerisce una sforbiciata di 50 miliardi, Berlino di 130 miliardi, Londra di 200 miliardi. Tagli di almeno 100 miliardi sono chiesti anche da Olanda, Svezia, Finlandia e Austria, mentre i paesi dell’Est Europa, a partire dalla Polonia (tra i principali beneficiari degli attuali fondi comunitari) sono contrari a ogni riduzione.

Per trovare un  accordo c’è tempo sino al vertice dei capi di stato e di governo in programma il 22-23 novembre prossimi. Altrimenti sarà l’ennesima prova di debolezza e i mercati potrebbero (non a torto) tornare a dubitare della capacità dei leader europei di trovare una cura al male del vecchio continente. Come credete che finirà e quale spazio di manovra credete che avranno, in caso di mancato accordo, i governi del Sud Europa per cercare di evitare nuovi scontri di piazza? La soluzione potrebbe forse essere un’alleanza con la Francia, che rischia di perdere il suo status di paese “virtuoso” e trovarsi invischiata in una recessione dolorosa nel giro di pochi mesi. Chissà se basterà questo stimolo per creare un blocco coeso di paesi in grado di convincere gli altri membri dell’Unione che in economia ogni moralismo è da bandire perché dannoso per la ricerca empirica delle migliori condizioni in cui far operare le aziende e dunque dare la possibilità ai cittadini di ottenere un benessere dignitoso e non eccessivamente incerto nel futuro?

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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