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Pirateria somala: ecco chi sono e come agiscono le gang del Corno d’Africa

La presa in ostaggio delle navi italiane quali la Savina Caylyn e la Rosalia D’Amato riapre la questione sulla pirateria somala. Di seguito alcuni cenni sull’origine del fenomeno e sulle modalità di attacco delle gang del Corno d’Africa.
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La parola pirati evoca da sempre scenari esotici e fantastici. Luoghi e vicende che sembrano lontani nel tempo e nello spazio dalla nostra realtà, almeno fino a quando non succede, come per la Savina Caylyn e la Rosalia d'Amato, che la minaccia si renda concreta e che la presa dei pirati diventi notizia. Il fenomeno della pirateria somala, in particolare, ha caratteristiche ormai definite: prese piede già nei lontani anni '90, quando proprio la Somalia divenne scenario di una sanguinosa guerra civile, i cui strascichi sono presenti ancora adesso. Strascichi di ordine economico e sociale che, in qualche modo, hanno contribuito ad acuire il fenomeno della pirateria. Quelle che si muovono nelle acque della Somalia, infatti, sono vere e proprie gang del mare, alla cui base c'è solitamente l'organizzazione tipica dei clan: incentrata su una conduzione familiare delle attività criminose e strettamente legata al territorio.

I predoni, infatti, non amano definirsi e essere definiti pirati: tra di loro si riconoscono con l'appellativo "badah badaadinta," che in italiano si tradurrebbe con "salvatori del mare". Già, perché le azioni volte alla presa di imbarcazioni o di navi da carico, rappresentano, per questi uomini, azioni volte a far rispettare quella che è l'indipendenza economica del loro Paese e del loro popolo. La Somalia, per via degli stravolgimenti politici e civili di cui è stata protagonista in questi anni, fronteggia una situazione economica disastrosa, oltre che politicamente anarchica. I "guardiani del mare" credono che il loro territorio sia in serio pericolo; sanno che gli stati occidentali possano approvvigionarsi delle risorse  del Paese e, anche in ragione di ciò, si danno alla pirateria. Almeno questo è ciò che traspare in un'intervista del Guardian a uno dei capi delle gang del Corno d'Africa; nello specifico questa è parte del racconto di Boyah, uno dei capibanda locali:

Fino al 1994, ho sempre lavorato come un pescatore subacqueo di aragosta presso Eyl. Da allora, la popolazione di aragosta al largo delle coste di Eyl è stata devastata dai pescatori stranieri, per lo più cinesi, taiwanesi e coreani. Utilizzando reti a strascico in acciaio, questi pescherecci stranieri non si sono preoccupati di stare attenti alle barriere: le hanno sradicate, senza badare al sostentamento futuro dei popoli che vivevano vicino alla costiera  e che si nutrivano di pescato quotidianamente. Oggi, non ci sono più aragoste nelle acque di Eyl. Così, ho cominciato a pescare una specie diversa, ma non era la stessa cosa.

In tale scenario, arruolarsi in una gang del mare è una delle prospettive occupazionali più "sicure" dei giovani somali. Ma, come avviene per altre organizzazioni criminali più vicine a noi, come camorra, mafia e ‘ndrangheta, anche per diventare pirati è necessario essere armati di coraggio e soprattutto non temere la morte. E così dal 1995 al 1997, Boyah e altri ex pescatori  hanno catturato diversi pescherecci, prendendo in ostaggio l'equipaggio.

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Nel 1997, poi, la pirateria ha subito una battuta d'arresto notevole: le nazioni che inviavano in quei mari le loro barche da pesca, strinsero accordi "diplomatici" con i capi delle tribù locali. Nonostante il fatto che la garanzia di una navigazione sicura  fosse la prima clausola degli accordi, le barche cominciarono ad attrezzarsi con armi di difesa, per fronteggiare gli attacchi dei cosiddetti cani sciolti. Ma i pirati,  armati di  incredibile coraggio, decisero di cambiare obiettivo per le loro razzie e scelsero le navi commerciali che si muovevano in quella zona : fu così che cominciò che la pirateria cominciò ad essere considerata alla stressa stregua delle organizzazioni criminali complesse, con una struttura piramidale in cui esiste solitamente un mandante, un capo del gruppo d'azione che coordina le operazioni e, infine, un folto gruppo di uomini che, invece, realizzano il ratto.

I pirati operano in maniera semplice e fulminea, dal primo attacco alla presa definitiva l'operazione dura in media 30 minuti. I gruppi d'attacco si muovono a bordo di piccole barche: si avvicinano alla nave da tutti i lati fino a marcarla stretta. Agitano in aria le armi e sparano qualche colpo in aria per spaventare l'equipaggio: a questo punto se l'attacco va a buon fine i pirati riescono a lanciare la scale di corda per salire a bordo. Nel caso in cui, invece, la nave si allontana velocemente non appena percepisce l'attacco, allora l'agguato può dirsi fallito. E non è cosa rara, secondo il capobanda intervistato dal Guardian: a suo dire, infatti, soltanto il 20%- 30% delle prese va a "buon fine".

C'è da dire che stare a largo del Corno d'Africa non è una garanzia. Gli assalti non avvengono soltanto nei pressi della costa somala, anzi. I pirati usano quella come "base" dove portare le navi, ma si muovono nell'Oceano Indiano. Nel Corno d'Africa, invece, l'organizzazione prevede che per tenere d'occhio l'equipaggio, i pirati si alternino con altri gruppi; inoltre, per ogni nave è sempre presente un interprete, figura necessaria per negoziare le diverse fasi fino all'ottenimento del riscatto.

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Un'altra variabile da tenere in considerazione quando si decide di sferrare un attacco è l'orario: solitamente questi avvengono nelle prime ore del mattino tra le 5 e le 7, com'è accaduto per la Savina Caylyn, da oltre 4 mesi ostaggi dei predoni del mare. La petroliera di proprietà dei Fratelli D'amato è stata presa d'assalto nell'Oceano Indiano alle 5.30, a un migliaio di chilometri ad est dell'isola di Socotra. I pirati hanno cominciato a sparare, ma il capitano ha cercato di sfuggire alla cattura in tutti i modi: ha prima accelerato la velocità, poi ha cambiato rotta, e infine ha provato a metterli fuori uso lanciando verso di loro potenti getti d'acqua, che però hanno reagito aprendo il fuoco: i cinque uomini hanno risposto al tentativo di dileguarsi con raffiche di mitra e granate incendiarie. Dopo un'ora e mezza di guerrilla, alle 7 i pirati sono riusciti ad impadronirsi della nave.

Solitamente, dopo la fase d'attacco ne sopraggiunge un'altra di convivenza forzata, in cui i pirati e gli uomini dell'equipaggio condividono i medesimi spazi,  sempre più angusti, e l'intera giornata. Una convivenza, però, che è tutt'altro che semplice. I pirati attaccano per  una ragione precisa: avere soldi, e quando la richiesta di riscatto non viene assecondata sono spesso nervosi (anche per via del qat -una droga dall'effetto euforizzante, simile all'anfetamina- di cui masticano quotidianamente le foglie). Inoltre sono armati fino ai denti, pronti a rivalersi sull'equipaggio, se qualcosa dovesse andare storto, o quando le operazioni subiscono dei ritardi.

Savina Caylyn

Dopo questa fase, con l'aiuto dell'interprete i predoni iniziano le trattative con l'armatore.  Qualora le richieste dei pirati non dovessero incontrare la disponibilità delle società di navigazione, solitamente è il governo cui fa capo la nave a pagare per il rilascio del mezzo, e soprattutto dell'equipaggio. I soldi  richiesti dai prati vengono  solitamente impacchettati e lanciati  da un elicottero direttamente sul ponte della nave. Di lì in poi, l'equipaggio può considerarsi libero mentre sul fronte somalo ha inizio la spartizione, che avviene pressapoco così: metà del bottino va agli attaccanti, gli uomini che fattualmente hanno catturato la nave. Un terzo, invece, finisce nelle mani degli  investitori dell'operazione: chi ha recuperato i soldi per le navi, per il combustibile, per le armi. Ciò che resta va agli altri attori che hanno preso parte all'operazione: le guardie  che hanno traghettato fino alla costa somala la nave, gli uomini che hanno tenuto d'occhio gli ostaggi, i fornitori di cibo e acqua, i traduttori (spesso si tratta di studenti delle scuole superiori durante la pausa estiva), e qualcosa finisce anche nelle tasche dei poveri e dei disabili della tribù cui appartiene la gang.

Insomma, si tratta di una vero e proprio apparato che dà lavoro a molti e che, in qualche modo, favorisce il benessere della comunità somala. Pertanto, i pirati non amano essere definiti come delinquenti, tutt'altro: come abbiamo sottolineato prima si definiscono dei salvatori del mare che,comunque, non hanno mai ucciso nessuno. Il loro obiettivo è attaccare navi e ottenere un succoso riscatto, per il resto, non si considerano degli assassini. Inoltre se pericolosi incontrati a bordo di una nave, sulla terraferma sono innocui.

Attualmente nell'area incriminata ci sono almeno 40 navi e oltre 600 marittimi in ostaggio in Somalia.  Undici sono i marittimi italiani: 5 sono membri della Savina Caylyn e 6 della Rosalia D'Amato, entrambi di proprietà della società dei Fratelli D'Amato. L'armatore, pur avendo cominciato le trattative per il rilascio della Savina, adesso non sembra essere in contatto con i pirati. Il riscatto richiesto è pari a 16 milioni di euro. Mentre la Farnesina tenta di tranquillizzare i familiari degli uomini sequestrati, sale l'agitazione per la sorte incerta di questi uomini.

Nonostante le trattative e il temporeggiare del governo, nell'intervista del Guardian al capo gang, sull'esito degli attacchi non c'è dubbio. Prima o dopo, tutte le navi assaltate dai pirati pagano il riscatto. Nessuna esclusa. Resta soltanto da decidere quanto far durare la pena dell'equipaggio; quando sono ormai passati 4 mesi dalla presa della Savina e 2 da quella della Rosalia d'Amato.

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