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Perché usare il termine ‘impeachment’ invece del nome italiano?

Non si deve essere retrivi: l’inglese sa essere una risorsa importante di rinnovamento della lingua. Ma non sempre l’uso dell’inglese è accettabile. In particolare, come abbiamo potuto apprezzare negli ultimi anni, l’uso dell’inglese in politica copre e confonde contenuti importanti con un inconsistente intonaco di avanguardia, di tecnica. Vediamo il caso del termine ‘impeachment’.
A cura di Giorgio Moretti
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In tanti nemmeno sapevano come si scrivesse, ‘impeachment', che in effetti non è una parola inglese delle più semplici. Tante persone, visto che se ne parlava in un momento di politica delicata e tanto congestionata, hanno fatto delle ricerche ingenue ma interessate su internet trascrivendo come meglio potevano quel termine che avevano udito, facendo errori comprensibili ma molto derisi dai dotti o additati come fonte di preoccupazione ("Ah-ha! Impingement! Che capre." "Vedi che gente vota?").

Quello dell'impeachment è un antico istituto del diritto anglosassone, sorto nel XIV secolo. All'orecchio ci richiama il nostrano ‘impiccio', e in effetti sono parole parenti: nel 1066 il normanno Guglielmo il Conquistatore, Duca di Normandia (seguite la serie Vikings? questi erano i Normanni che si erano stabiliti in Francia con Rollone, Rollo nella serie), Guglielmo il Conquistatore, dicevo, diventa re d'Inghilterra, e si porta dietro la lingua francese, lingua dell'élite conquistatrice, che su quella inglese avrà un'influenza notevole. Tante parole di origine latina che troviamo in inglese arrivano per questa via. Nella fattispecie, il francese antico conosce i verbi empeechierempedechier, da cui sia il nostro impicciare (anche impacciare) sia il to impeach inglese, e questi verbi francesi derivano dal latino impedicare ‘prendere al laccio per i piedi'. Figura che nell'interpretazione anglosassone ci evoca l'arrestato.

Stiamo parlando in effetti di un tipo particolare di rinvio a giudizio: particolare per i soggetti che coinvolge, persone che hanno una speciale rilevanza nel funzionamento dello Stato. In tanti ordinamenti è ritenuto opportuno che, nell'esercizio delle proprie funzioni, certe cariche godano di una relativa tranquillità. Se non una vera immunità, uno scudo che vagli le accuse più serie e concrete: altrimenti persone tanto in vista e politicamente coinvolte potrebbero essere bombardate di procedimenti giudiziari pretestuosi. L'impeachment statunitense è un meccanismo che si applica, secondo la Costituzione, a "The President, the Vice President, and all civil Officers of the United States", cioè ad esempio ai membri dell'esecutivo, ai giudici, e non ai membri delle Camere. Un meccanismo piuttosto diverso da quello considerato omologo che la nostra Costituzione prevede all'art. 72, la messa in stato d'accusa del Presidente della Repubblica.

Insomma, l'impeachment e la messa in stato d'accusa sono due istituti diversi di due ordinamenti diversi che fanno parte della stessa famiglia. Chiamare ‘impeachment' la messa in stato d'accusa è come chiamare ‘tigre' il leone. Vabbe', sono parenti felini, ma è concettualmente sbagliato. Allora perché abbiamo sentito parlare di impeachment in riferimento al nostro Presidente della Repubblica?

Sondarne il motivo specifico è da indovini, e non possiamo che ricondurci ai motivi generali per cui si opta per una parola inglese sbagliata invece di usare quella italiana corretta. Sorvolandoli in quota:

  • Fa più impressione. "Voglio la messa in stato d'accusa" ah, ho capito. "Voglio l'impeachment" ommamma, e che è, una magia di Harry Potter? Devo portare l'ombrello?
  • Fa fico. Si dà l'impressione di dominare i grandi ingranaggi della scena internazionale, di essere di mondo, tanto avanti nel terzo millennio, e di avere un telefonino grosso così.
  • Dice e non dice. "Voglio la messa in stato d'accusa" è un messaggio preciso. "Voglio l'impeachment" è oscuro per una grandissima fetta della popolazione. E questo in politica spesso è un vantaggio.

Insomma, quale che sia la fetta dell'arco parlamentare in cui si siedono, i politici italiani non devono usare parole inglesi a meno che non siano di uso comunissimo o totalmente indispensabili, perché padroneggiare l'inglese non è un dovere costituzionale. Non dovrebbe essere così difficile da capire. E chi in questo quadro si ostina a inglesizzare con disinvoltura sta facendo un torto, incontinente o malizioso, ai cittadini.

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Nato nel 1989, fiorentino. Giurista e scrittore gioviale. Co-fondatore del sito “Una parola al giorno”, dal 2010 faccio divulgazione linguistica online. Con Edoardo Lombardi Vallauri ho pubblicato il libro “Parole di giornata” (Il Mulino, 2015).
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