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Trammamuro, scarfachiuovo e arrocchiampapene: le parole intraducibili del dialetto napoletano

Dei tanti vocabolari e dizionari oggi esistenti che cercano di classificare, definire e dare una spiegazione alla fantasia linguistica del napoletano, nessuno riuscirebbe mai a raccogliere in modo completo l’infinita varietà di termini presenti nel dialetto: questo anche perché esistono parole pressoché intraducibili alla lettera. Ma allora, parole come “cap e’ fierro”, “scarfachiuovo” e “trammamuro” (la più famosa e nota), cosa vogliono significare?
A cura di Federica D'Alfonso
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Da "trammamuro" a "scarfachiuovo": le parole intraducibili del dialetto napoletano
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Se ci si volesse lanciare nell'ardua impresa di stilare un vocabolario del dialetto napoletano che comprenda tutti i modi di dire le espressioni gergali che ancora oggi si utilizzano nel parlato, probabilmente non basterebbe una vita per completarlo: se è vero che il linguaggio forma il pensiero, è evidente come la grande vivacità di questa lingua abbia nei secoli formato la capacità di coniare sempre nuovi termini e nuove espressioni, curiose e strampalate, per descrivere le più svariate situazioni. È il caso ad esempio di alcune parole che la linguistica chiamerebbe “locuzioni idiomatiche”, conosciute più comunemente come “modi di dire”, che risultano praticamente intraducibili in italiano: ecco le più curiose.

Le parole intraducibili del napoletano: attenzione agli articoli

In ogni lingua esistono delle parole, o delle espressioni, composte da più elementi che, presi singolarmente, non hanno alcun significato: è solo nell'unità dell’espressione, nella vivacità con cui termini apparentemente distanti si uniscono, e nell'interpretazione che i parlanti ne danno, che si ha un significante nuovo e, nel caso del dialetto napoletano, del tutto inaspettato. La traduzione letterale di alcune di queste espressioni non ha alcun senso logico ma, con un po’ di fantasia, è possibile comprenderne la fortissima capacità evocativa.

Perché chiamare gli oggetti di uso comune con una parola banale e scontata? Ecco allora che in dialetto napoletano il treno diventa ‘o cap ‘e fierro, la bara ‘o cappotto ‘e lignamme, e il pianoforte ‘o janco e niro. È facilmente intuibile il processo attraverso il quale il pensiero dialettale ha formato questi termini: prendendo le caratteristiche fisiche di tali oggetti e accostandole ad una metafora per indicarne la loro funzione principale. Un’attenzione particolare si deve avere, poi, nei confronti degli articoli, che in queste particolari circostanze possono stravolgere del tutto il significato della parola: come nel caso del “tale e quale”: se chiamata al maschile (‘o tale e quale) la locuzione indica infatti lo specchio, ma se invece ad essa si antepone la “a” femminile (‘a tale e quale), ecco che si ottiene la fotografia.

‘O trammamuro: una particolarità tutta napoletana

Uno degli idiomismi più curiosi, il più famoso senz’altro, è quello del “trammamuro”. Cosa sarà mai questo stranissimo oggetto? Scomponiamo le parole e ci rendiamo subito conto dell’originalità creativa della lingua napoletana che, in questo caso non è per nulla casuale: il “tram-a-muro” nient’altro è che l’ascensore. Rifiutando l’etimologia latina di “ascendere” che, attraverso il francese ha portato in Italia “l’ascensore”, il napoletano ha coniato un nome tutto suo per questo particolare prodotto dell’ingegno umano, scegliendo di ricordarlo non tanto per la sua funzione fondamentale, quella di “ascendere” da un piano all’altro di un edificio, ma per il particolare modo in cui appariva anticamente, quando venne inventato.

Fra i tanti primati propri della napoletanità infatti, c’è anche quello dell’ascensore: un primo prototipo, chiamato “sedia volante”, si ebbe a metà Ottocento grazie all'ingegno dell’architetto Luigi Vanvitelli. Installato nella Reggia di Caserta, questo antenato dell’ascensore aveva una particolarità, comune anche fino ad inizi Novecento, ovvero quella di avere al suo interno delle sedie per accomodarsi in attesa della salita: come un vero e proprio tram.

Gli insulti, quelli intraducibili

E che dire degli insulti. Esistono centinaia di locuzioni fra cui scegliere se si vuole dare dello stupido o del fannullone a qualcuno, e anche in questo caso la fantasia creativa del napoletano non ha avuto limiti. Essere un “buono a nulla” è quasi un complimento, se si guarda a come il dialetto classifica il fannullone per antonomasia: fra le tante espressioni che si possono usare quella di “arrocchiampapene”, ovvero di qualcuno buono solo ad “arrocchiare” (ad ammucchiare) le foglie (i “pampini”, ovvero le foglie di vite).

Oppure quella, ancora più cattiva, di qualcuno che è solo uno “scarfachiuovo”, ovvero buono ad un’operazione pressoché inutile, ovvero quella di “scaldare” i chiodi. Il povero chiodo che, fra l’altro, è usato anche come similitudine per un’altra definizione, questa volta di una persona ottusa, senza possibilità di cambiare idea: dicesi, in questo caso, “cap’e chiuovo”.

Essere lenti, svogliati e talvolta anche pigri è un’altra delle cose che ai napoletani proprio non vanno giù: per descrivere questo particolare carattere il termine forse più emblematico, e curioso, è quello di “musciamatteo”: un’etimologia strana quella di questa parola, nata dall'agglutinazione del termine “moscio”, derivato dal latino “mustum”, ovvero qualcosa che richiede molto tempo per formarsi, e il nome comune “Matteo”. Ma perché proprio questo? In questo caso la fantasiosa storia del dialetto non dà risposte certe.

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