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Marchionne suona il de profundis per Lancia

Marchionni cambia idea: meglio puntare su pochi modelli e marchi e saturare gli impianti anche in Italia che chiudere altre fabbriche. Il manager dimostra di aver compreso gli errori fatti da Romiti negli anni Novanta…
A cura di Luca Spoldi
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marchi Fiat Auto

Ha fatto rumore sulla stampa italiana l’ultima “uscita” di Sergio Marchionne, che dopo i conti dei nove mesi di Fiat Auto e Fiat Industrial ha annunciato la nuova strategia del gruppo torinese a livello di marchi italiani: riduzione o eliminazione del marchio Lancia e rilancio di Alfa Romeo e Maserati. Il tutto, si badi, senza chiudere alcuno stabilimento in Italia (il che segna l’ennesimo cambio di rotta rispetto alle ipotesi circolate fino a poche settimane fa di chiusura di almeno un altro impianto dopo quello di Termini Imerese alla fine dello scorso anno), ma semplicemente riallineando il portafoglio prodotti e riposizionando il business del gruppo per il futuro.

Nei prossimi anni, ammette Marchionne, che guida un gruppo tra i più deboli in termini finanziari a livello mondiale,  la sfida sarà “grande per tutti”, quindi occorre tagliare la gamma eliminando sostanzialmente le auto di media cilindrata, cannibalizzate dal basso da city car come le stesse Fiat Panda e 500 (o più limitatamente dalla Ypsilon, nata Autobianchi e poi passata in eredità alla Lancia e probabilmente destinata a rimanere l’unico modello di tale marchio in futuro) e dall’alto da berline e Suv che ormai il gruppo punta a produrre coi marchi Alfa Romeo e Maserati (oltre che sfruttando il marchio Jeep, portato in dote da Chrysler). L’obiettivo è alzare la redditività e quindi rendere il gruppo più competitivo rispetto a concorrenti del calibro di Bmw o anche solo Renault e Volkswagen-Audi.

“Dobbiamo essere onesti, la Lancia ha un appeal limitato fuori dall’Italia”, ha ammesso il manager che ha anche smentito le ultime indiscrezioni (in parte avallate dai vertici della stessa Chrysler) di un trasferimento della produzione di Jeep dagli Stati Uniti alla Cina. A questo punto se i colloqui col partner cinese del gruppo, Guangzhou Automobile Group, andranno e buon fine e se le vendite di Jeep continueranno a correre come in questi ultimi mesi, è probabile che la capacità produttiva dell’impianto della joint-venture Fiat- Guangzhou a Changsha, nella Cina centrale, attualmente di 140 mila vetture l’anno, sia portata al massimo previsto di 500 mila vetture l’anno, mentre un’altra parte di vetture potrebbe essere prodotta proprio negli stabilimenti italiani (Chrysler si è data l’obiettivo di vendere almeno 500 mila vettura sul mercato dell’auto mondiale esclusi gli Usa entro il 2014, triplicando il risultato del 2009, anno in cui Fiat assunse il controllo del produttore americano).

Apriti cielo, le reazioni tra lo sdegnato e l’ironico di commentatori e lettori all’annuncio di Marchionne non si sono fatte attendere, ma a questo punto permettetemi di dissentire. Marchionne ha ragione a tagliare marchi e modelli, visto che è storicamente stato uno dei problemi del gruppo come già scriveva Giorgio Garuzzo, ex direttore generale del gruppo all’epoca in cui Fiat voleva ancora dire Gianni Agnelli, Cesare Romiti e Vittorio Ghidella, nel suo libro “Fiat, i segreti di un’epoca”. All’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, scrive Garuzzo, “un immenso problema strutturale di Fiat Auto non era risolto. Si vendevano soprattutto vetture piccole, però la gamma era distribuita su tre machi e un gran numero di modelli in concorrenza tra loro” prima e più che coi modelli della concorrenza straniera.

Già all’epoca, ricorda sempre Garuzzo, “i costi di progetto e di gestione erano altissimi, l’attenzione e la qualità molto basse ed era impossibile informare la clientela estera della loro esistenza”. A fine 1993 Garuzzo propose di affrontare il problema tagliando, marchi, modelli e reti di vendita, ma “venne bloccato da Romiti, con una consulenza pilotata ad arte”. Sono passati da allora quasi trent’anni, la Fiat non è più redditizia, i capitali di cui dispone non le consentono un rinnovo della gamma con la stessa rapidità dei concorrenti maggiori, la qualità percepita fatica ad emergere complici decenni di produzioni modeste. E’ una scommessa, quella di Marchionne, che assomiglia molto all’ennesimo rilancio a poker, sperando che entri una scala reale avendo solo due o forse tre carte buone in mano, ma molte alternative non ce ne sono, sempre che si voglia continuare a produrre e vendere auto.

Dalle slide di presentazione Marchionne sembra ora volerlo fare (si annunciano 30 nuovi modelli di autovetture da lanciare tra il 2013 e il 2016 oltre a sette “refresh” di modelli già sul mercato, e 5 nuovi modelli di veicoli commerciali, oltre a 4 “refresh”), stare a questionare se abbia senso lanciare “modelli costosi ora che l’Italia è in crisi” vuol dire non aver capito, dopo trent’anni, l’errore già fatto da Romiti, che ha certamente contribuito a indebolire il gruppo e le sue prospettive. E non volersi rassegnare al fatto che il mercato dell’auto ormai è mondiale e conta di più, per Fiat come per qualunque altro produttore, riuscire a soddisfare la domanda di vetture di alta gamma là dove i mercati sono in crescita (in Asia come in America del Nord e del Sud) che non curare il proprio orticello nazionale con piccole vetture poco costose sulle quali è virtualmente impossibile guadagnare un margine significativo senza affrontare continua battaglie anche sul costo del lavoro. Uno scenario alternativo che personalmente definirei da capitalismo arcaico, non siete d’accordo con me?

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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