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La straordinaria scoperta della BCE: in Italia il lavoro non cresce

Il bollettino della BCE bacchetta l’Italia sulla crescita dell’occupazione: siamo i peggiori d’Europa. Gli ultimi dati lo confermano. E l’Europa chiede più flessibilità.
A cura di Michele Azzu
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Il rapporto della Banca Centrale Europea sull’Eurozona ha fatto una scoperta dell’acqua calda: in Italia l’occupazione è ferma. “L'occupazione complessiva è rimasta pressoché invariata, in controtendenza rispetto all'insieme dell'area Euro e alle sue economie più piccole”, dice il rapporto che esamina la crescita dell’occupazione dall’ultimo trimestre del 2013 al primo del 2015 (cioè da quando le cose hanno iniziato ad andare un po’ meglio dopo la crisi economica).

Complessivamente, per la BCE, tutti i paesi fanno meglio dell’Italia sulla crescita dell’occupazione. Mentre con la crisi si erano persi cinque milioni e mezzo di posti di lavoro nell’Eurozona, dal 2013 ad oggi se ne sono recuperati poco più di due milioni. In questa cifra però l’Italia è quasi assente. La crescita dell’occupazione nell’area Euro è dovuta principalmente a Germania (592mila posti di lavoro) e Spagna (724mila). Questi due paesi assieme, spiega il rapporto, hanno incrementato l’occupazione del 33% dell’area euro.

Ma va meglio dell’Italia praticamente a tutti: Grecia, Portogallo e Irlanda assieme sono responsabili del 15% della crescita di lavoro nell’area Euro. “Il contributo è comparabile a quello complessivamente fornito nello stesso periodo da Francia e Italia, due economie di dimensioni ben più significative”, spiega l’istituto presieduto da Mario Draghi. Anche alla Francia va meglio che a noi, con 190mila posti di lavoro contro i nostri 127mila.

Alla fine dell’anno, dopo nove mesi di Jobs Act e un anno e mezzo di Garanzia Giovani e un decreto lavoro, insomma, l’Europa torna a bacchettare l’Italia sull’occupazione. Una lettura dei dati che contrasta significativamente con quella celebrata dal governo di Matteo Renzi. In Italia il lavoro è fermo. E fermi sono anche i contratti indeterminati, come confermano i dati Istat. A settembre e ottobre gli indeterminati sono calati, dopo i dati incoraggianti registrati nei primi mesi del Jobs Act (adottato dal governo a marzo).

Ma se il rapporto, per quanto illuminante, si ferma al primo trimestre del 2015, è possibile pensare che da aprile – e cioè dall’introduzione del Jobs Act – le cose siano sostanzialmente cambiate? Non proprio. Gli ultimi dati Istat, infatti, riportano un calo della disoccupazione, che si accompagna però a un calo anche nel numero degli occupati, mentre aumentano gli inattivi (coloro che pur non avendo lavoro non lo cercano), mentre cresce in maniera preoccupante la disoccupazione giovanile.

Nei primi tre trimestri del 2015, inoltre, la crescita dell’occupazione ha riguardato 38mila posizioni in più rispetto allo stesso periodo del 2014, di cui 32mila a tempo indeterminato. Come si dice, una montagna che partorisce un topolino, perché per questi piccoli numeri sono serviti due miliardi di fondi pubblici per le assunzioni. Sui contratti indeterminati, poi, bisogna considerare l’aumento dell’incidenza dei part-time rispetto ai full-time.

Rimangono le considerazioni sulla qualità delle condizioni di lavoro. Secondo la BCE, due terzi dei contratti avviati in Italia dal 2013 ad oggi sono a tempo, e di questi la maggior parte non dura più di sei mesi. In Italia, poi, negli ultimi mesi abbiamo registrato anche un’impennata dell’utilizzo dei voucher – cresciuti del 75% nel primo semestre 2015, del 95% al sud – ora diventati il nuovo strumento precario per pagare il lavoro occasionale (e funziona peggio di una partita Iva).

Una considerazione a parte va fatta per i giovani, a cui va peggio di tutti. Sui numeri della disoccupazione europea, infatti, va considerato il peso della disoccupazione giovanile, a cui la Commissione ha cercato di porre rimedio col progetto Garanzia Giovani che in Italia è stato adottato il 1 maggio 2014, ma non ha prodotto risultati soddisfacenti (qui l’ultimo monitoraggio del ministero riporta i giovani a cui sono state "offerte delle misure", che non significa nulla).

Secondo l’ultimo rapporto Istat, infatti, quella degli over 50 è l’unica fascia di età in crescita nell’occupazione, con 18mila posizioni in più. Una tendenza costante: da gennaio 2013 – quindi in una fascia temporale complementare a quella in esame dalla BCE – ad oggi sono circa 900mila gli over 50 in più, con una crescita del 13.9%. Tutto considerato, la stagnazione nella crescita dell’occupazione rilevata dalla BCE rimane dunque anche durante tutto il 2015 (fatta eccezione per i primi mesi di introduzione del Jobs Act, subito riassorbiti).

Dunque, cosa fare? Perché se per fare queste considerazioni basta leggere i dati, più difficile è capire come uscirne fuori. Per la BCE la ricetta è chiara: aumentare la flessibilità. Il Jobs Act per l’Europa non è abbastanza, non è bastato cancellare l’articolo 18, non è bastato estendere voucher e contratti a tempo. “La Spagna ha registrato continue diminuzioni dei posti di lavoro”, scrive la BCE, “Fino al recente punto di svolta”. Una svolta che è dovuta in buona parte all’aumento del lavoro precario.

“Senza una significativa accelerazione della crescita, ci vorranno 20 anni a Portogallo e Italia per ridurre il tasso di disoccupazione ai livelli pre-crisi”, scriveva l’FMI lo scorso luglio, richiamando l’Italia alle stesse considerazioni della BCE oggi. Insomma, è tutta la “troika” a tenerci al guinzaglio della precarietà. Gli stessi signori che sei mesi fa hanno messo in ginocchio la Grecia con un durissimo piano di risanamento del debito. Non c’è da stare tranquilli.

Ma una maggiore flessibilità non è la risposta. Non si tratta di fare come la Spagna. Sul campo della precarietà, e della flessibilità, questo paese ha già sperimentato di tutto. Con le finte partite Iva, coi voucher, i contratti a tempo che sono tre volte i contratti stabili, i contratti a progetto e il sempre presente “nero”. Insomma, la BCE propone di raschiare un barile che purtroppo in Italia è stato ripulito da tempo, sulle spalle di più generazioni di precari a cui hanno appena detto che difficilmente riceveranno una pensione.

La flessibilità introdotta col decreto lavoro nel 2014 e poi col Jobs Act nel 2015 non ha prodotto più posti di lavoro. Chiedere ulteriori interventi sulla flessibilità, dunque, è tirare una coperta troppo corta. Una coperta che, in Italia, abbiamo ormai consumato del tutto.

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Michele Azzu è un giornalista freelance che si occupa principalmente di lavoro, società e cultura. Scrive per L'Espresso e Fanpage.it. Ha collaborato per il Guardian. Nel 2010 ha fondato, assieme a Marco Nurra, il sito L'isola dei cassintegrati di cui è direttore. Nel 2011 ha vinto il premio di Google "Eretici Digitali" al Festival Internazionale del Giornalismo, nel 2012 il "Premio dello Zuccherificio" per il giornalismo d'inchiesta. Ha pubblicato Asinara Revolution (Bompiani, 2011), scritto insieme a Marco Nurra.
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