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La Grecia e la Rivoluzione tra passato e futuro, miseria e resistenza

La Grecia ha conosciuto la dittatura, la rivoluzione, la tecnocrazia, ha inventato la democrazia. Non esiste, insomma, paradigma filosofico-politico che non abbia visto il vivace protagonismo della penisola ellenica. Ma ora? Cosa accade nella terra degli dei? In che direzione porta la crisi?
A cura di Anna Coluccino
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L'immagine dei cancelli del Politecnico di Atene, divelti dalla violenza dei carri armati che – prima nel 1944 poi nel 1973 – sfondarono l'ingresso del celebre istituto ellenico è emblematica di una nazione avvezza alla resistenza, alla lotta per la riconquista della dignità perduta. Eppure in questi giorni Atene tace, non per rassegnazione, ma per la necessità di  privilegiare il pensiero sull'azione. L'azione senza pensiero si chiama istinto, e l'istinto segue i sentimenti che animano l' "io", e la Grecia – al pari del pianeta tutto – ha bisogno di ritrovare il senso del "noi". Vale a dire il senso ultimo di quella moltitudine in movimento verso la trasformazione; una moltitudine che – però – è composta da individui; una moltitudine che non si traduce in massa, in un agglomerato privo di senso critico, di coscienza. Questo è quanto emerge dalle chiacchierate intavolate con le molte anime della resistenza greca. Una resistenza che rivive – oggi – dopo aver lottato nel 1821 contro i turchi, nel 1944 contro i nazisti, nel 1973 contro i colonnelli e – ora – contro i dictat, i memorandum, le imposizioni del Fondo Monetario Internazionale, della BCE e dell'Unione Europea che violentano la sovranità nazionale. "Se restare in Europa significa venir privati del diritto all'autodeterminazione, allora meglio uscire dall'Europa, o preoccuparsi di riconfigurare il progetto europeo in un modo che sia rispettoso delle esigenze di ogni popolo" questo è quanto si sussurra per le strade di Atene, questo è quanto chiedono – con toni e parole diverse – Kostas, ristoratore del Pireo, Yannis, ingegnere elettronico, Odisseas, sociologo, Olga, dipendente del ministero della cultura, Statis, commerciante, e decine, centinaia, migliaia, probabilmente milioni di greci che non intendono arrendersi all'idea di aver perduto il diritto a decidere della propria esistenza.

Certo, il popolo greco non si sente esente da colpe, non si auto-assolve, non crede di essere immacolato, pretende – però – di riscattarsi senza dover pagare con la vita o con la rinuncia al diritto alla felicità per i propri errori. Per questo, il prossimo 17 marzo, i greci torneranno in piazza, poi toccherà ai poeti, che sfileranno il 21 marzo (Giornata Internazionale della Poesia) e infine il 25 marzo, anniversario dell'indipendenza della Grecia dall'Impero Ottomano. Quest'ultimo è l'appuntamento più atteso, la data in cui – con tutta probabilità – si assisterà al riversarsi nelle strade di centinaia di migliaia di persone. Il livello di consapevolezza cresce di giorno in giorno, è pressoché impossibile camminare per le strade della Grecia e incontrare qualcuno che non abbia un'opinione precisa di quanto accade. Tutti sono consapevoli del processo economico e politico che attraversa la penisola ellenica, tutti hanno un'opinione su quel che andrebbe fatto, opinione – spesso – condivisa dai più, anche se con sfumature diverse. La parte difficile, ora, consiste nel superare le divisioni, la diffidenza, la rabbia fine a se stessa, la tentazione di credere che tutto ciò che è diverso dall'individuo sia – di per sé – malvagio, corrotto e corroso da un'interesse personale che è nemico dell'interesse collettivo. Occorre – ora –  fare quadrato gli uni intorno agli altri e comprendere che non c'è altro modo per superare un sistema incapace di garantire dignità e uguaglianza.

Il popolo greco conosce il colonialismo, conosce la dittatura, conosce la rivoluzione, conosce la democrazia, non esiste paradigma filosofico-politico che non abbia visto il vivace protagonismo della penisola ellenica, eppure il popolo non perde il sorriso, la speranza forse. Ma ora? Di quale mutamento sarà ancora una volta artefice? Intanto, la povertà e la disperazione dilagano. Ci sono donne che vendono i propri figli, "uomini tartaruga" che trascinano sull'asfalto le poche cose che ancora possiedono, mentre restano aggrappati al briciolo di dignità che gli resta. Si moltiplicano di ora in ora le mani che rovistano nei cassonetti alla ricerca di cibo, anche in pieno giorno, quando migliaia di occhi sgranati osservano impotenti l'impudente ostentazione della miseria; mani scavano senza vergogna, perché la lotta per la sopravvivenza non conosce vergogna. La vergogna – semmai – è di chi non si cura del danno collaterale connesso a certe scelte; di chi continua, imperterrito, come fecero i carri armati che abbatterono i cancelli del Politecnico, a massacrare la società civile in nome del potere finanziario, come se avesse un senso che uno strumento inventato dall'uomo per sua comodità prenda il sopravvento su di lui, che lo schiacci, lo umili, senza che una scelta diversa sia in alcun modo contemplabile. Forse è davvero arrivato il momento di chiedersi: a che gioco stiamo giocando? Condannare per salvare, uccidere per tenere in vita, sono ossimori non più tollerabili. "A volte occorre ammazzarne dieci per salvarne mille" sussurra qualcuno che preferisce restare anonimo, sottolineando che la dichiarazione deve restare "off record" e forse neanche si chiede come mai non abbia il coraggio di legare un nome a delle parole, quando c'è chi, in pieno giorno, si nutre dei rifiuti altrui, per sopravvivere.

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