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Cosa fare se si vive una relazione tossica, i consigli della psicologa

Il caso di Giulia Cecchettin e Filippo Turetta ha sollevato il livello di attenzione sulle relazioni di natura oppressiva. Per capire perché si entra in una di queste relazioni e come uscirne, Fanpage.it ha intervistato la psicologa Antonella Contarino.
Intervista a Antonella Contarino
Psicoterapeuta e membro della società italiana di Sessuologia clinica e Psicopatologia sessuale
A cura di Valerio Berra
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I particolari continuano ad affiorare. Nell’ordinanza di custodia cautelare per Filippo Turetta firmata dal giudice per le indagini preliminari si può leggere una delle prime ricostruzioni della morte di Giulia Cecchettin. Il delitto sarebbe avvenuto in più fasi. Prima un'aggressione a 150 metri da casa, poi un'altra in una zona industriale. E poi ancora il corpo nascosto, e la fuga. Il resto lo dirà il processo. A seconda dei capi di accusa che gli verranno contestati, Filippo potrebbe rischiare l’ergastolo. Intanto il caso ha sollevato un’attenzione ancora inedita in Italia. E grazie alle parole della sorella Elena e del padre Gino il caso singolo di Giulia è diventato un punto di partenza per portare il dibattito su un tema più ampio: quello delle relazioni. Basta aprire i social per leggere qualsiasi tipo di commento su questa storia e sul contesto in cui è nata.

Noi di Fanpage.it ne abbiamo parlato con Antonella Contarino, psicoterapeuta e membro della società italiana di Sessuologia clinica e Psicopatologia sessuale. Se volete approfondire, su questo tema abbiamo intervistato anche Carlo Rosso, medico psichiatra e professore di Psicologia e Psicopatologie sessuali all’Università di Torino. Precisiamo una cosa. Nell’intervista qua sotto non si parla della relazione tra Giulia e Filippo, ma in generale di relazioni oppressive.

Dopo la morte di Giulia siamo tornati a parlare di relazioni oppressive, o tossiche. Come appaiono all’inizio questi legami?

Una relazione di questo tipo spesso si svela nel tempo. Non ha caratteristiche che si notano subito. È una sorta di dinamica a imbuto. In qualche modo si va a stringere sempre di più la libertà dell’altro, fino a quando l’altro si accorge di essere in trappola.

Come si fa a stare in una relazione così chiusa?

Spesso queste relazioni si basano sull’ambivalenza: c’è un’alternanza tra i momenti in cui la persona mi fa sentire molto amata e quelli in cui cerca di chiudermi. L’amore che mi viene offerto ha sempre un prezzo ed è quello della libertà. Si comincia da piccole cose, da frasi come “questo potremmo farlo insieme” e poi si arriva all’imposizione di un controllo costante.

Le persone intorno non si accorgono di cosa sta succedendo?

Chi subisce questo trattamento non sempre capisce cosa gli accade. E spesso tende a non condividerlo. Anzi. Se quando parla della sua relazione riceve giudizi dagli altri, alla fine tenderà a isolarsi e rimanere da solo per non dovresti confrontare.

Perché si rimane in queste relazioni?

Ogni caso ha delle variabili. A volte ci si ritrova in dinamiche che si sono già viste in famiglia, nel rapporto tra i genitori o con i genitori, dove il tema del controllo fa parte della relazione intrafamiliare. Non si parla necessariamente di genitori violenti o oppressivi ma di relazioni che non creano sicurezza, creano ambivalenza. Se non sono certo della mia amabilità, del fatto di poter essere amato, allora l’esperienza di essere amato diventa più importante di qualsiasi cosa. Ma la risposta cambia da caso a caso.

Cosa fare quando ci si accorgere di essere dentro una relazione del genere?

È importante rivolgersi a un professionista. Sarà lui ad aiutarmi a capire meglio cosa mi lega a quella persona e perché non riesco ad andarmene. Devo capire la mia relazione, avere uno spazio in cui non essere giudicato e capire se ci sono dei traumi irrisolti alle spalle che mi fanno stare in una relazione in cui la mia libertà è limitata.

E invece da dove nasce il desiderio di circoscrivere la libertà degli altri?

Per assurdo la matrice è la stessa. Tutto parte dai modelli di riferimento. Chi sente il bisogno di circoscrivere la libertà di una persona e esercitare il possesso ha dietro un’enorme fragilità emotiva, un'insicurezza relazionale e una scarsa fiducia nell'altro che diventa qualcuno da controllare. L'altro diventa qualcuno su cui avere potere per non rischiare di perderlo e rimanere solo. L'altro diventa la mia sicurezza.

Stiamo parlando molto anche di cultura patriarcale. Ha un ruolo in questo tipo di storie?

La cultura patriarcale può avere un ruolo in alcuni casi, ma non credo che sia un fattore determinante. Siamo in una fase storica in cui tutto il concetto di famiglia sta venendo meno. I confini sono meno definiti, come i ruoli. I ragazzi si trovano davanti a genitori focalizzati sull'evitamento della sofferenza, cosa che li rende incapaci di avere gli strumenti per affrontarla quando la si incontra.

Chi si deve occupare dell’educazione sentimentali dei ragazzi?

I genitori, la famiglia è il modello da cui partire. È lì che si deve imparare l’intelligenza emotiva. La scuola può fare da spalla ma non può sostituirsi, lo dico per esperienza. Si può fare tutta la formazione che si vuole a scuola ma è un lavoro che poi non è sufficiente se a casa non si confermano dei modelli relazioni funzionali.

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