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Anticorpo monoclonale rallenta la progressione dell’Alzheimer, è la prima volta: “Risultato storico”

L’anticorpo monoclonale Lecanemab rallenta la progressione dell’Alzheimer del 27%, colpendo la proteina beta amiloide. Per molti esperti è una svolta epocale.
A cura di Andrea Centini
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Dopo decenni di fallimenti nella lotta al morbo Alzheimer, la forma di demenza più diffusa al mondo, un farmaco sperimentale, o meglio, un anticorpo monoclonale, ha dimostrato per la prima volta di rallentare la progressione della patologia neurodegenerativa. L'effetto del Lecanemab, sviluppato dalle case biofarmaceutiche Biogen ed Eisai, è considerato "moderato", inoltre è fondamentale assumerlo nella fase precoce della condizione e presenta anche effetti collaterali da non sottovalutare; ciò nonostante per molti medici e ricercatori si tratta di un risultato storico e rivoluzionario, una vera e propria svolta, alla luce delle difficoltà nel trattamento della patologia e delle conseguenze catastrofiche che l'Alzheimer ha sulla vita delle persone. L'impatto sanitario, sociale ed economico della malattia è devastante, anche per i famigliari dei pazienti, pertanto qualunque passo in avanti, seppur piccolo, è molto significativo per la comunità scientifica. A maggior ragione se si pensa che dai circa 50 milioni di pazienti a livello globale di oggi, si stima che si arriverà a circa 140 – 150 milioni entro il 2050 a causa dell'invecchiamento della popolazione.

A determinare l'efficacia del Lecanemab contro l'Alzheimer è stato un team di ricerca internazionale guidato da scienziati statunitensi della Scuola di Medicina dell'Università di Yale, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi dell'Istituto di Ricerca Terapeutica dell'Alzheimer dell'Università della California del Sud, del Centro per la memoria, l'invecchiamento e la cognizione dell'Università nazionale di Singapore, del Toronto Memory Program (Canada), dell'Istituto Centrale di Salute Mentale di Mannheim (Germania) e di molti altri centri di ricerca sparsi per il mondo. I ricercatori, coordinati dal professor Christopher H. van Dyck, membro dell'Unità di ricerca sulla malattia di Alzheimer presso l'ateneo di New Haven, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver testato l'anticorpo monoclonale in un studio di Fase 3 multicentrico in doppio cieco e controllato con placebo, che ha coinvolto circa 1.800 pazienti con Alzheimer in fase iniziale. I pazienti avevano un'età compresa tra i 50 e i 90 anni e presentavano deterioramento cognitivo o demenza lievi. Tutti avevano la presenza della beta amiloide nel cervello, rilevata attraverso tomografia a emissione di positroni ( PET) o esame del liquido cerebrospinale. Si tratta di una proteina “appiccicosa” che si accumula nel tessuto cerebrale dei pazienti ed è associata alla neurodegenerazione e all'Alzheimer.

Gli studiosi hanno suddiviso i partecipanti in due gruppi; al primo, composto da 898 persone, è stato assegnato l'anticorpo monoclonale, somministrato per via endovenosa in dosi da 10 milligrammi per chilogrammo di peso corporeo, ogni due settimane. Al gruppo di controllo è stato invece somministrato il placebo. I pazienti sono stati seguiti per 18 mesi. Incrociando tutti i dati è emerso che il Lecanemab ha ridotto di circa un quarto (27 percento) la progressione del morbo di Alzheimer, determinando un declino “moderatamente inferiore” nelle valutazioni cognitive e funzionali rispetto al placebo. L'anticorpo monoclonale, un'immunoglobulina semi-sintetica progettata in laboratorio a partire da veri anticorpi, è progettata proprio per colpire la proteina beta amiloide, che assieme alla tau è considerata un bersaglio privilegiato per combattere l'Alzheimer. Gli esami hanno rilevato una riduzione della proteina nel cervello dei pazienti trattati col farmaco sperimentale.

Come specificato, tuttavia, il trattamento non è stato esente da effetti collaterali, anche significativi. Il 7 percento dei partecipanti ha infatti dovuto lasciare lo studio proprio per essi. Come riportato dalla BBC, le scansioni cerebrali hanno rilevato un rischio aumentato di emorragie cerebrali nel 17 percento dei partecipanti e di gonfiore cerebrale nel 13 percento. Ma la protezione dalla patologia neurodegenerativa è risulta statisticamente significativa, pertanto per molti scienziati siamo innanzi a una svolta dopo tanti anni di tentativi a vuolo. “I risultati di oggi mostrano che il Lecanemab rallenta il declino cognitivo, che è una buona notizia per i milioni di pazienti e le famiglie che vivono con l'Alzheimer”, ha dichiarato in un comunicato stampa il dottor Howard Fillit, co-fondatore e direttore scientifico dell'Alzheimer's Drug Discovery Foundation (ADDF). “Ma questo è solo un inizio per bloccare l'Alzheimer sul nascere. Abbiamo molta strada da fare per passare dal rallentamento del 27 percento garantito dal Lecanemab al nostro obiettivo di rallentare il declino cognitivo del 100 percento”, ha chiosato l'esperto.

L'Alzheimer's Research UK ha affermato che i risultati dello studio sono stati "importanti", mentre il professor John Hardy, che da decenni studia la beta amiloide per combattere l'Alzheimer, li ha definiti "storici", aggiungendo che "stiamo assistendo all'inizio delle terapie per l'Alzheimer". I dettagli della ricerca “Lecanemab in Early Alzheimer’s Disease” sono stati presentati alla 15esima conferenza "Clinical Trials on Alzheimer's Disease" e pubblicati sulla rivista scientifica The New Engalnd Journal of Medicine, considerata la più autorevole in campo medico. Recentemente studiosi italiani dell’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR-ISTC) hanno proposto l'ipotesi che Alzheimer e Parkinson possano essere la duplice manifestazione clinica di un'unica malattia, che hanno soprannominato Sindrome neurodegenerativa dell'anziano o NES.

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