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Eurocrisi: rinvio non è opzione strategica

E’ difficile che emergano sostanziali passi in avanti nella risoluzione della crisi del debito sovrano dalla riunione di stasera a Bruxelles. Ma rinviare indefinitamente non è un’opzione strategica.
A cura di Luca Spoldi
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Protesta durante la 87a Giornata Mondiale del Risparmio

Non ho la sfera di cristallo e non so dunque se stasera lo Spirito Santo o chi per lui illuminerà i partecipanti all’ennesimo “conclave” dei capi di governo europei a Bruxelles, ma nonostante il via libera dato dal Bundestag alla cancelliera Angela Merkel a negoziare coi suoi colleghi il potenziamento del fondo salva stati Efsf, la stessa Merkel ha già annunciato che per salvare l’euro occorrerà mettere mano a una revisione dei trattati, sanzionando chi sfora sistematicamente il Patto di stabilità, ribadendo altresì che la Germania non contempla la partecipazione della Bce al finanziamento dell’Efsf (come vorrebbe invece la Francia), auspicando anzi che la Banca centrale europea interrompa l’acquisto di bond governativi sul mercato secondario una volta che il fondo verrà rafforzato (si parla di 100 miliardi di euro da ottenere peraltro incrementando la leva finanziaria del fondo stesso, ossia la sua possibilità di ricorrere a nuove emissioni di debito, e non tramite nuovi contributi in conto capitale da parte dei governi Ue, anche per non trovarsi nell’imbarazzante situazione di dover andare a chiedere soldi a chi come la Spagna o l’Italia rischia di dover essere salvato a breve se la crisi non sarà superata).

Le premesse per un accordo sono dunque ancora deboli e anche i mezzi passi in avanti fatti in questi giorni nel corso della giornata sono stati parzialmente smentiti in giornata, dopo che alcune voci provenienti da Bruxelles hanno ricordato che è ancora presto per poter dire se le banche accetteranno “volontariamente” di svalutare non del 21% come accettato a luglio ma del 50% il valore dei propri titoli di stato greci, per poi procedere ad uno swap di parte dei titoli in scadenza con nuove emissioni a lungo termine di Atene, dato che l’Iif (associazione internazionale di banche che appunto aveva siglato l’accordo di luglio) non rappresenterebbe la totalità delle banche private esposte verso il debito di Atene e dato che per il varo dello swap si prospettano ancora alcune settimane di attesa.

Quanto all’Italia resta da vedere se le “dichiarazioni d’intenti” che puntualmente il governo ha fatto pervenire in zona Cesarini convinceranno i partner comunitari, cosa che a rigor di logica non dovrebbe visto che al di là di ribadire la generica volontà di rilanciare l’economia (ma con quali mezzi?), di voler liberalizzare professioni e settori economici (volontà più volte paralizzata dal lavoro delle molteplici lobbies trasversalmente rappresentate anche in Parlamento) e del “topolino” di anticipare di un anno (dal 2026 al 2025) il termine del “percorso graduale” di allineamento di tutti i lavoratori, uomini e donne, del settore pubblico e di quello privato la lettera altro non dice, a partire dalle date entro cui i provvedimenti si concretizzeranno né l’impatto che ciascuno di esso avrà in termini di minore spesa pubblica o maggiore crescita del Prodotto interno lordo italiano.

Ma siccome proprio le banche tedesche e francesi sono quelle principalmente esposte e siccome i 108 miliardi di ricapitalizzazione che si cercherà di “convincere” gli istituti a varare sembrano ancora pochi rispetto all’esposizione al rischio PIIGS (che anche senza tener conto dell’Italia e della Spagna peserebbe non meno di ulteriori 200-300 miliardi tra titoli in portafoglio e attività in essere) è probabile che se non la classica foto “sorrisi e pacche sulle spalle” dal vertice uscirà l’ennesimo “segnale di fiducia” che farà guadagnare qualche ulteriore giorno fino al prossimo G20 del 3 e 4 novembre prossimo (quando la stessa scena rischia purtroppo di ripetersi, se i vari protagonisti della vicenda non riusciranno a trovare un compromesso accettabile da tutti).

Nel frattempo anche in Italia la fiducia degli investitori privati continua a calare, come ben sanno le imprese che operano nel settore del risparmio gestito che in settembre ha registrato l’ennesimo tracollo con un risultato netto negativo di 6 miliardi, legato a un calo della raccolta delle gestioni collettive (fondi e sicav) di 4,7 miliardi di euro cui si è sommato un calo della raccolta delle gestioni patrimoniali individuali (quelle che investono direttamente in azioni e obbligazioni, tipicamente) di 1,3 miliardi. Un risultato che fa calare il patrimonio gestito a poco più di 950 miliardi di euro, una cifra comunque imponente che spiega perché nonostante tutto entrare nel mercato italiano faccia così gola ai principali operatori esteri (e perché occorrerebbe una maggiore attenzione per evitare che anche in questo settore le aziende italiane finiscano con l’essere relegate a una posizione del tutto marginale).

Eppure qualche provvedimento, per quanto “impopolare” (ma lo sarebbe davvero se a proporlo fossero leader credibili?) lo si sarebbe potuto prendere per dare quanto meno un segnale, a partire da un’accelerazione del percorso di perequazione tra i vari trattamenti pensionistici che varrebbe per chi ancora deve andare in pensione e non lederebbe i diritti acquisiti di chi in pensione c’è già, restituendo un minimo di prospettive per chi lavora e una pensione dignitosa rischia di non riuscire ad averla mai), dalla verifica della sussistenza dei requisiti per quel 32,8% di pensionati che secondo gli ultimi dati ufficiali Inps gode del cumulo di due o più pensioni (e che costano, anche solo fermandoci alle seconde o più pensioni di vecchiaia, 74,26 miliardi di euro l’anno dei 202 miliardi complessivamente erogati come pensioni di vecchiaia ogni anno) alla ridefinizione dei contributi per le pensioni di importo più elevato.

Se poi si volesse fare un’operazione socialmente equa occorrerebbe avere la lungimiranza di incentivare realmente la previdenza complementare, reprimendo duramente eventuali azioni discorsive della concorrenza che a volte si verificano anche tra banche e assicurazioni (in questo come in altri campi). E magari, ciliegina sulla torta, si potrebbe cercare di introdurre correttivi in ambito fiscale (con una riduzione del cuneo fiscale che grava sulle retribuzioni e più in generale mirando ad un calo del livello complessivo dell’imposizione fiscale sempre promesso ma mai realizzato) e per il mercato del lavoro (favorendo lo sviluppo di rapporti di lunga durata e lavori qualificanti, in grado in entrambi i casi di massimizzare i contributi previdenziali).

In ogni caso l’inazione ha i suoi costi: mentre a Roma (e Bruxelles si discute), l’inflazione al 3% erode il potere d’acquisto dei taxpayer europei agendo come patrimoniale occulta tanto più che i rincari maggiori in questi ultimi mesi hanno riguardato carburanti e generi alimentari, guarda caso beni a domanda anelastica per i quali un incremento del prezzo unitario provoca un calo delle quantità vendute che però non compensa completamente i maggiori prezzi tanto che il fatturato (e i profitti) per produttori e distributori di questi beni tende in questi casi a crescere. A scapito evidentemente di altri beni di consumo, del risparmio e degli investimenti, avvitando ancora di più una crisi da cui sembra riuscire a sottrarsi solo chi le tasse le evade (oltre a chi i capitali li impiega nel "sommerso" criminoso). Prendere tempo può dunque essere una tattica valida per smussare le divergenze, ma non è in alcun modo un’opzione strategica.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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