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Opinioni

Quanti sono, da dove vengono e cosa si lasciano dietro i migranti sbarcati in Italia nel 2018

Sono poco più di 16mila i migranti sbarcati in Italia nei primi sei mesi del 2018. La maggior parte di loro sono tunisini, eritrei, sudanesi e nigeriani. Scappano da povertà, persecuzioni e violenze. L’anno scorso oltre 68 milioni di persone erano sfollate o rifugiate in un altro Paese. “Nessuno diventa un rifugiato per scelta”, hanno ricordato le Nazioni Unite.
A cura di Mirko Bellis
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Un'imbarcazione di migranti soccorsa in mare dall'Ong Sea-Watch (Sea-Watch)
Un'imbarcazione di migranti soccorsa in mare dall'Ong Sea-Watch (Sea-Watch)

Nei primi sei mesi del 2018, secondo gli ultimi dati diffusi dal ministero dell’interno, sono giunti in Italia 16.566 migranti, per la maggior parte partiti dalla Libia. Un numero cinque volte inferiore rispetto al 2017. La riduzione degli sbarchi è avvenuta dopo gli accordi tra l’ex ministro Minniti e Fayez al Serraj, il premier del governo di unità nazionale di Tripoli. Una stretta sull'immigrazione criticata duramente dalle organizzazioni internazionali, che hanno denunciato le pessime condizioni dei migranti in Libia, detenuti senza il minimo rispetto dei loro diritti umaniDa dove provengono i migranti tratti in salvo nel Mediterraneo nel 2018 e, soprattutto, qual è la situazione nei loro Paesi d’origine? Oltre tremila migranti sbarcati sulle coste italiane hanno dichiarato di essere di nazionalità tunisina, seguiti da eritrei, sudanesi, nigeriani e cittadini della Costa d’Avorio. Mali, Guinea, Iraq, Pakistan e Algeria completano gli altri Paesi di provenienza.

Le nazionalità dei migranti sbarcati in Italia nel 2018 secondo i dati diffusi dal ministero dell'Interno
Le nazionalità dei migranti sbarcati in Italia nel 2018 secondo i dati diffusi dal ministero dell'Interno

Tunisia

Manifestazione di protesta a Tunisi contro le misure di austerità decise dal governo (Gettyimages)
Manifestazione di protesta a Tunisi contro le misure di austerità decise dal governo (Gettyimages)

Negli anni successivi alla “rivoluzione dei gelsomini”, che nel 2011 ha spodestato il dittatore Zine El-Abidine Ben Ali, il Paese nordafricano ha vissuto una grave crisi economica. Se i dati relativi alla crescita economica mostrano una discreta ripresa, l’inflazione e la disoccupazione si mantengono molto alte. L'aggravarsi delle condizioni di vita e la perdita di fiducia nelle istituzioni hanno generato mobilitazioni popolari che a più riprese il governo ha tentato di reprimere con metodi violenti. Nel gennaio di quest’anno, l’introduzione di misure d’austerità decise dalla coalizione di governo tra i laici di Nidaa Tounes e gli islamici di Ennhadha, ha provocato le proteste in numerose città soprattutto tra le classi meno abbienti. Le nuove tasse previste su beni di prima necessità e l’aumento del prezzo della benzina hanno infiammato gli animi di migliaia di tunisini. Saccheggi e disordini che per tre giorni hanno fatto temere il ritorno al caos. Il movimento di protesta Fech Nestannew (“Cosa stiamo aspettando?”) ha cominciato a radunarsi anche fuori al parlamento di Tunisi chiedendo “lavoro, libertà e dignità nazionale”. La reazione delle autorità è stata molto dura e sono stati centinaia i manifestanti arrestati. Per molti tunisini, le aspettative generate dalla rivoluzione che diede inizio alla Primavera araba, sono state in parte disattese e la disperazione li ha portati ancora una volta a cercare di attraversare quel lembo di mare che li separa da Lampedusa.

Eritrea

Ragazzi eritrei rifugiati nella vicina Etiopia (Iom)
Ragazzi eritrei rifugiati nella vicina Etiopia (Iom)

L'Eritrea – uno degli Stati più poveri al mondo – è governata dal 1993 da un solo uomo, Isaias Afewerki. Una dittatura in cui non sono ammessi i partiti politici (eccetto quello di Afewerki), organizzazioni indipendenti della società civile o media, e nessun sistema giudiziario indipendente. Di fronte alla mancanza di libertà, circa il 12% degli eritrei è scappato dal Paese. Una delle ragioni che spingono alla fuga migliaia di giovani eritrei è il servizio militare a tempo indeterminato. Leva che in alcuni casi può durare decenni e spesso equivale a lavori forzati. Vi sono obbligati, svolgendolo spesso in condizioni equivalenti a lavori forzati, ragazze e ragazzi dai 16 anni così come persone anziane. Chi viene preso dopo aver abbandonato la leva o cercato di evitare il servizio militare anche provando a lasciare il Paese, viene arrestato e detenuto – a volte a tempo indeterminato – in condizioni agghiaccianti, come è stato documentato da un rapporto di Amnesty international. I detenuti sono spesso tenuti in celle sotterranee o in container per la navigazione. Lo stesso destino attende molti di coloro che vengono rimandati in Eritrea dopo che la loro domanda d’asilo è stata respinta. “Queste persone, molte delle quali minorenni, sono rifugiati in fuga da un sistema che si qualifica come lavoro forzato su scala nazionale e che non lascia loro alcuna possibilità di fare scelte su aspetti fondamentali della loro vita”, ha dichiarato Michelle Kagari, vicedirettrice per l’Africa orientale, il Corno d’Africa e la regione dei Grandi laghi di Amnesty International. Ciò nonostante, sempre più spesso gli Stati europei rifiutano le richieste d’asilo degli eritrei.

Sudan

Un campo profughi in Sudan (Gettyimages)
Un campo profughi in Sudan (Gettyimages)

Sono poco più di 1.400 i sudanesi sbarcati nel nostro Paese nei primi sei mesi del 2018. In Italia, circa il 60% delle domande di protezione internazionale presentate dai cittadini sudanesi nel 2016 ha avuto esito positivo. Una percentuale in linea con le statistiche europee, che collocano i sudanesi tra le 10 nazionalità con il più alto tasso di accettazione a causa della difficile situazione del loro Paese. A Darfur, teatro di una sanguinosa guerra iniziata nel 2003 e tuttora in corso, sono più di 2,7 milioni gli sfollati, dei quali 1,6 milioni costretti a vivere in oltre 60 campi e centinaia di migliaia come profughi in Ciad. Gli scontri tra le forze governative e il gruppo ribelle di Abdul Wahid sono ripresi, nonostante il cessate il fuoco imposto unilateralmente da Khartoum nel marzo 2018. La violazione dei diritti umani – denuncia Human Rights Watch – continua ad essere orribile con continui attacchi ai civili a Darfur, nel Kordofan del Sud e nel Nilo Blu. La repressione non risparmia neppure la società civile e i media indipendenti con detenzioni arbitrarie, torture e omicidi sommari di attivisti, studenti e manifestanti. In Sudan circa il 15% della popolazione vive con meno di due dollari al giorno e 48 bambini su 1000 muoiono prima di aver compiuto 5 anni.

Nigeria

Alcuni bambini nigeriani in un campo di sfollati in fuga dalle violenze di Boko Haram (Gettyimages)
Alcuni bambini nigeriani in un campo di sfollati in fuga dalle violenze di Boko Haram (Gettyimages)

A causa del gruppo terrorista Boko Haram, centinaia di migliaia di persone sono fuggite dalla Nigeria. Secondo uno studio di Nrc (Norwegian Refugee Council), nel 2017 erano 1,7 milioni gli sfollati e 200.000 nigeriani vivevano come rifugiati nei Paesi vicini. A Maiduguri, la capitale del Borno, lo stato nel nord-est  della Nigeria, gli attentati sono frequenti: caserme, mercati affollati e moschee, stazioni degli autobus e persino i campi degli sfollati sono gli obiettivi delle missioni suicide compiute in molti casi solo adolescenti, obbligati dai jihadisti a farsi saltare in aria. Dal 2009, in Nigeria hanno perso la vita ventimila persone per mano di questa organizzazione terroristica e il conflitto ha lasciato senza servizi pubblici milioni di nigeriani provocando una grave crisi umanitaria.  Quasi mezzo milione di case e un gran numero di scuole, strutture sanitarie e fonti di approvvigionamento idrico sono stati distrutti. In nome della lotta al terrorismo, inoltre, il governo nigeriano, si è macchiato di gravi abusi e violazioni dei diritti umani. E non è solo la violenza jihadista a provocare morti: gli scontri per la terra tra pastori nomadi e contadini hanno causato migliaia di vittime nel centro del Paese negli ultimi decenni.

L'anno scorso – avvertono le Nazioni Unite – 68,5 milioni di persone sono state costrette a scappare da guerre, persecuzioni e violenze, lasciano i propri affetti, la propria casa e tutto ciò che un tempo era parte della loro vita. Per il quinto anno consecutivo è stato battuto il record di sfollati e richiedenti asilo: al mondo, una persona ogni 110 è costretta alla fuga. “Siamo a una svolta, dove il successo nella gestione degli esodi forzati a livello globale richiede un approccio nuovo e molto più complessivo, per evitare che Paesi e comunità vengano lasciati soli ad affrontare tutto questo”, ha dichiarato Filippo Grandi, l'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati. “Il mio appello agli Stati membri – ha concluso Grandi – è di sostenerci. Nessuno diventa un rifugiato per scelta; ma noi tutti possiamo scegliere come aiutare”.

 

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