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Talebani a Kabul: le ultime news sull'Afghanistan

Perché il vero nemico dei Talebani in Afghanistan si chiama ISIS

I Talebani avranno problemi nel governare l’Afghanistan. Ma non per l’opposizione del Panshir guidato dal giovane, bello e “occidentale” Ahmad Shah Massoud. A crear loro problemi sarà la filiale afghana dell’ISIS, ancora più integralista e sanguinosa. E, soprattutto, con forti legami in Pakistan e Arabia Saudita.
A cura di Fulvio Scaglione
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Impegnato come sempre a coreografare i propri fallimenti, l’Occidente ha impiegato mezza giornata a trovare l’antidoto spirituale al ritorno dei talebani. Si chiama Ahmad Massoud, ha 32 anni, è figlio del “leone del Panshir” Ahmad Shah Massoud e ha tutto per rispondere ai criteri iconografici richiesti: è giovane, è carino, ha studiato nel Regno Unito (Accademia militare di Sandhurst, King’s College, università di Londra), è il guerrigliero afghano perbene che ci serviva. Peccato che sia tornato in Afghanistan solo nel 2016 e che della famosa e inespugnabile valle del Panshir in cui si trincera abbiano tranquillamente fatto a meno, quando controllavano il Paese, sia i sovietici sia i vecchi talebani.

Adesso tutti si aspettano che gli Usa lo inondino di armi e che da quei monti parta la riconquista di Kabul. Ma se i talebani avranno problemi (ed è molto probabile che succeda), non sarà da lì che dovranno aspettarseli. La spina nel fianco del nuovo regime si chiama Stato Islamico-Khorasan ed è la filiale afghana dello Stato Islamico che arrivò a regnare su un terzo della Siria e dell’Iraq, che ha radici in Libia e ancor più nel Maghreb e che mette le mani nelle infinite crisi della regione africana del Sahel.

L’ISIS in Afghanistan

Per la verità, definire “afghano” lo Stato Islamico-Khorasan è un po’ azzardato. La sua comparsa risale al 2014, nella provincia di Helmand a Sud e in quella di Nangarhar a Est. In quella di Helmand i talebani lo liquidarono quasi subito, con ogni probabilità in accordo con gli Usa. Abdul Rauf Khadim, per lo SI-Khorasan vice-governatore della provincia di Helmand, fu fatto secco da un drone americano appena tre giorni dopo essere stato nominato. Abbiamo fatto il suo nome perché nella gerarchia del gruppo islamista la sua era la posizione più alta detenuta da un afghano. I leader dello SI-Khorasan, infatti, sono tutti pakistani. E anche gli afghani che hanno ruoli di medio-alta responsabilità, non sono afghani “veri” ma ex-emigrati che si sono arruolati per combattere nell’Isis in Siria o Iraq e che da lì, in seguito, sono stati trasferiti in Afghanistan. Gente, insomma, di provata fede in Al-Baghdadi. Il che conferma l’analisi di chi pensa che lo SI-Khorasan altro non sia che un’emanazione dei servizi segreti pakistani, come sempre in combutta con quelli sauditi, per tenere un piede in Afghanistan e influenzarne le sorti. Nel caso specifico, servirebbe da monito ai talebani, a ricordare loro che ci sono linee rosse da non attraversare, e interessi da rispettare.

Non a caso lo SI-Khorasan, liquidato in fretta nella provincia di Helmand, è rimasto radicato in quella di Nangarhar, che si estende lungo il confine con il Pakistan, in una zona grigia di traffici e intrighi dove domina l’Isi, il servizio segreto pakistano, uno Stato nello Stato che è il vero demiurgo della politica estera regionale del Paese. Lo fondò nel 1948 un inglese, sir Robert Cawthorne, ex maggiore generale del British Indian Army, e conserva da allora una fama di spietatezza ed efficienza.

Nel Nangarhar, lo SI-Khorasan ebbe il suo momento di massima gloria tra il 2015 e il 2016, quando riuscì a prendere il controllo di nove distretti. Poi il ridimensionamento, spinto da diverse ragioni. Una certa reazione dei talebani. La morte di Hafiz Said Khan, il primo capo del movimento, un ex comandante talebano ucciso nel luglio 2016 dalle forze speciali Usa. Lo scontento della popolazione locale, che non accettava le violenze e soprattutto il bando alla coltivazione del papavero da oppio. I contrasti tra i capi pakistani e i quadri afghani. E l’azione di contenimento appunto dell’Isi, che voleva (e tuttora vuole) lo SI-Khorasan vivo e vegeto ma non troppo forte. Proprio in quel periodo Rahim Muslim Dost, un afghano che era tra i primi e più rispettati leader del movimento, prese e se andò sbattendo la porta, accusando appunto i servizi segreti pakistani di essere i burattinai dello SI-Khorasan. Guarda caso, di lui non si è saputo più nulla, sparito per sempre.

I Taliban? Infedeli come tutti gli altri

Resta comunque una costante: la mente pensante di tutto il primo periodo era Shahidullah Shaid, un altro fuoriuscito dei talebani che aveva vissuto a lungo in Arabia Saudita ed era l’ufficiale di collegamento con le centrali di finanziamento dell’islamismo del Golfo Persico. Mimetizzato nel ruolo relativamente secondario di portavoce, Shahid era un Osama bin-Laden in sedicesimo, capace di convogliare nel Nangarhar i quattrini raccolti dalla miriade di fondazioni pseudo-umanitarie che già furono alla base della potenza di Al-Qaeda.

Da allora, lo SI-Khorasan ha colpito con regolarità, sfidando sia le truppe internazionali di stanza nelle grandi città sia i talebani che, prima della vittoria finale, controllavano le campagne e i villaggi. Secondo il Centre for Strategic and International Studies, nel solo biennio 2017-2018 sarebbe stato responsabile di un centinaio di attacchi contro civili in Afghanistan e Pakistan e di 250 scontri a fuoco con truppe americane e afghane e con milizie talibane. Con una forza combattente ridotta rispetto ai tempi d’oro (600-800 uomini contro i 3000-4000 del 2015-2016) lo SI-Khorasan è comunque in grado di mettere a segno colpi sanguinosissimi. Più di un migliaio di civili uccisi in decine di attentati, alcuni dei quali recentissimi ed esemplari per esecuzione e obiettivo: 55 morti nell’attacco a una scuola femminile di Kabul l’8 maggio scorso, 12 morti nell’attentato a una moschea a Shakar Darah nella provincia della capitale il 16 maggio. E 20 morti all’Università di Kabul nel novembre 2020, 29 morti nell’incursione contro una prigione a Jalalabad e così via.

Vengono da qui i pericoli veri per qualunque tentativo talebano di stabilizzare la situazione e consolidare il potere appena riconquistato. L’ISIS, soprattutto questo fatto di transfughi alla corte di Al-Baghdadi, considera i talebani degli infedeli come gli altri, nulla più. E non smetterà di colpire. Anzi: avrà alle spalle la rabbia e la forza di un’Arabia Saudita che è stata a lungo al centro del gioco (amica dei vecchi talebani prima, degli occupanti americani dopo) e che ora si è vista soppiantare dal Qatar e domani dalla Turchia, e che a sua volta avrà tutta l’approvazione degli Usa. Aspettiamoci attentati nelle moschee e bombe nei mercati, com’è nella tradizione dell’Isis. Il numero degli attacchi e il livello della violenza dipenderanno dai servizi segreti del Pakistan, vero termoregolatore della temperatura dell’Afghanistan.

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