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Perché dobbiamo temere quello che succederà in Iran dopo la morte di Raisi

Il clero, che dalla Rivoluzione mantiene ancora le posizioni chiave alla guida del paese, ha tradizionalmente seguito un approccio volto a mantenere lo status quo e ad evitare un confronto diretto e un’escalation con USA e Israele. Ma i pasdaran adottano un approccio più bellicoso e aggressivo contro l’Occidente, ad esempio sdoganando completamente l’idea di un programma atomico iraniano.
A cura di Greta Cristini
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La morte del presidente iraniano Ebrahim Raisi e del suo ministro degli Esteri Hossein Amir-Abdollahian avvenuta domenica scorsa 19 maggio in un incidente aereo mentre il suo elicottero viaggiava sopra la provincia azera dell’Iran si inserisce all’interno di uno dei momenti più critici della vita della Repubblica Islamica sorta dopo la Rivoluzione del 1979 e la guerra contro l’Iraq. Accelerandone inaspettatamente alcune dinamiche e cogliendo impreparate le eterogenee leadership che compongono il sistema di potere di Teheran (nezam).

La Costituzione iraniana prevede nuove elezioni entro 50 giorni dalla morte del presidente, ovvero venerdì 28 giugno. Benché il primo vicepresidente Mohammad Mokhber abbia assunto le funzioni di capo di governo ad interim, la necessità di colmare stabilmente il vuoto di potere creatosi accelera sensibilmente una transizione di potere delicatissima, generazionale, già in fieri da diversi anni. Il quadro politico e sociale dell’Iran infatti non è un monolite, al contrario. Fin dagli anni successivi alla fine della guerra con l’Iraq (1988) un crescente multipolarismo ha governato le istituzioni. Ma non si tratta solo di una questione di politica interna. La prima e la seconda generazione che si contendono il potere politico ed economico iraniano hanno visioni strategiche differenti. Il risultato di questa lotta intestina verosimilmente toccherà il suo apice con la morte della Guida Suprema, l’ottantacinquenne e malato Ali Khamenei, vero titolare del potere e della strategia in Iran. E determinerà il nuovo volto della politica estera regionale e globale dell’Iran.

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Giurista islamico, già pubblico ministero della Corte Speciale del clero (il tribunale competente per i reati commessi dalle autorità religiose sciite) e membro decennale dell’Assemblea degli Esperti (l’organo di governo incaricato di scegliere e nominare la Guida Suprema), Raisi è stato un leader di basso profilo nei suoi quasi tre anni al potere. Non solo poco carismatico e perlopiù non amato dalla popolazione (come i video dei festeggiamenti in alcune città iraniane alla notizia della sua morte sembrerebbero testimoniare) ma considerato dalla gran parte degli analisti senza visione politica, non incisivo, un "contenitore vuoto" che si è fatto strada nel sistema perché riempito delle strategie di chi lo ha direzionato, ovvero l’élite teocratica, a partire dallo stesso Khamenei di cui è stato fedelissimo collaboratore. La narrazione secondo cui fosse uno dei papabili candidati alla successione della Guida Suprema, del resto, si spiegherebbe precisamente per la sua forte continuità e conformità alla linea di governo del clero. Le competenze in mano alla presidenza in materia di politica estera sono limitate; il modello giuridico iraniano, anche a seguito della riforma costituzionale del 1989, si basa sulla figura di una Guida Suprema religiosa che dispone del potere decisionale apicale in materia di politica estera. Un potere che nei fatti però viene esercitato in maniera collegiale tramite l’organo responsabile del Supremo Consiglio per la Sicurezza Nazionale, il quale ha il ruolo di delineare le politiche di difesa e sicurezza nel quadro delle direttive generali stabilite dalla Guida Suprema.

Scendiamo nel dettaglio dell’inesorabile processo di soppiantamento della prima generazione con la seconda. La prima generazione è quella che fu protagonista della Rivoluzione e che si consolidò nei primi anni Ottanta: è l’anziana élite del clero che definì l’impianto teocratico dell’allora neonata Repubblica Islamica, ma che oggi per ragioni anagrafiche si sta esaurendo divenendo sempre più minoritaria. La seconda generazione ha al suo centro i pasdaran, il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche (IRGC), emersi grazie alla conduzione della guerra con l’Iraq negli anni Ottanta. Nati come milizia pretoriana a fianco dell’esercito regolare israeliano (Artesh) hanno trovato legittimazione nella difesa dei valori rivoluzionari sul campo di battaglia contro Bagdad, per poi penetrare capillarmente l’apparato istituzionale ed economico-industriale del paese. La componente militare dei pasdaran è oggi quindi divenuta uno Stato dentro lo Stato e il cuore dell’apparato economico e amministrativo del paese.

Gli esponenti di queste due élite che oggi compongono l’establishment di potere a Teheran seguono orientamenti strategici differenti a seconda del ruolo immaginato per l’Iran nel mondo. Il clero, che dalla Rivoluzione mantiene ancora le posizioni chiave alla guida del paese (Guida Suprema, Consiglio dei Guardiani e Assemblea degli esperti), ha tradizionalmente seguito un approccio volto a mantenere lo status quo, guidato ideologicamente da una netta ostilità culturale agli Stati Uniti, ma strategicamente da un principio molto pragmatico definito di “pazienza strategica”. In altri termini, la linea finora è stata quella di calibrare ogni iniziativa e contro-iniziativa esterna per evitare un confronto diretto e un’escalation tanto con gli Stati Uniti quanto con Israele, baluardo degli interessi americani nella regione. In questo senso, il sistema teocratico ha apertamente ostacolato ogni possibilità di sviluppare un programma nucleare militare, anche impedendolo con provvedimenti normativi ed editti religiosi ad hoc, come la cosiddetta fatwā emessa dall’ayatollah Khamenei del 2003 che proibisce, appunto, la produzione di armi nucleari. Un atteggiamento misurato, cauto che si è mantenuto per decenni fino all’attacco con missili e droni perpetrato dall’Iran in territorio israeliano nella notte del 13 aprile scorso, un inedito storico nello scontro fra le due principali potenze del Medio Oriente, ma che è avvenuto solo dopo che Teheran aveva dato a Israele e ai suoi alleati tre giorni di preavviso per proteggere il loro spazio aereo. Le regole di ingaggio fra la Repubblica Islamica e lo Stato Ebraico da allora sono state innalzate a un livello mai sperimentato prima, e Teheran ha parlato di “nuova equazione” aperta nel confronto col nemico israeliano. Una reazione quella iraniana che considerato il suo carattere muscolare e al contempo circoscritto e avvertito è stata interpretata da alcuni analisti proprio come una sintesi dei due approcci fra prima e seconda generazione.

I pasdaran, infatti, adottano un approccio più bellicoso e aggressivo contro l’Occidente, ad esempio sdoganando completamente l’idea di un programma atomico iraniano che persegua proprio l’obiettivo di ricostruire una deterrenza sostanziale che metta al sicuro Teheran da future provocazioni di Stati Uniti e Israele. L’Iran, secondo i Guardiani della Rivoluzione, dovrebbe assumere una posizione più espansiva nella regione tesa a difendere gli interessi nazionali dopo oltre 40 anni di sanzioni e il fallimento dell’accordo sul programma nucleare iraniano (Joint Comprehensive Plan of Action, Jcpoa) siglato nel 2015.

La morte di Raisi arriva dunque in un momento in cui sta cambiando il paradigma del paese. Le prossime elezioni presidenziali erano previste fra un anno, e nemmeno la componente più favorita, ovvero quella ultra-conservatrice dei pasdaran si aspettava di mettersi in gioco così presto. In un sistema politico articolato e disomogeneo in cui la seconda generazione non essendo espressione del clero difficilmente può generare figure per i ruoli chiave che reggono l’attuale regime teocratico, l'improvvisa campagna per la successione presidenziale ha aperto uno spazio di manovra ai pasdaran. Quella di cavalcare il momento per cercare di consolidare il proprio potere attraverso l’elezione di un presidente che esprima a pieno la sua élite, in particolare nella sua corrente più conservatrice e radicale, che già nelle scorse elezioni parlamentari del marzo scorso ha visto un aumento dei consensi a suo vantaggio, sia pure a fronte di un’affluenza in caduta libera che si è attestata ai minimi storici del 41% circa.

Nonostante l’intricato contesto politico-istituzionale, il Paese reale è nella sua stragrande maggioranza completamente estraneo a questi giochi di potere fra clero e militari. Se il 30% della popolazione iraniana si riflette nelle prime due, esiste una terza generazione di giovani iraniani nata dopo la Rivoluzione e la guerra che rappresenta complessivamente circa il 70% della popolazione, la quale non interloquisce né con la prima né con la seconda generazione. Una massa di giovani senza leadership né rappresentatività politica mossa da un forte malcontento sociale e che non trova alcuna corrispondenza culturale, religiosa e ideologica nella difesa dei valori islamici o rivoluzionari. È sbagliato – come spesso accade alle nostre latitudini – decifrare il nuovo spirito della nazione che sta emergendo dalle cicliche proteste in Iran come teso verso un’idea occidentalizzante. Tutt’altro: l’elemento che sembra fare da collante al tessuto sociale della terza generazione è quello della memoria ancestrale di una identità nazionale iraniana che risale alla storia millenaria imperiale della civiltà persiana pre-islamica.

In conclusione, nel breve periodo la continuità della politica estera iraniana verrà garantita da un sistema istituzionale collegiale che afferisce ad altri vertici rispetto a quello presidenziale rimasto senza guida. Ma la breve e intensa lotta per la sua successione riguarderà verosimilmente l’ascesa del fronte ultra-conservatore Paydari, partito politico nato nel 2011 che ha già vinto le elezioni del marzo scorso e che da anni si è infiltrato con la sua irriducibile ideologia integralista rivoluzionaria nelle istituzioni statali iraniane, comprese le forze armate e i Guardiani della Rivoluzione. Militari la cui influenza sul processo decisionale di Teheran aumenterà fisiologicamente al crescere del rischio di un conflitto con Israele e, per estensione, con gli Stati Uniti.

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Analista geopolitica, reporter di guerra e scrittrice. Laureata in Sorbona a Parigi e già avvocato anticorruzione a New York, torna in Italia dopo 8 anni all’estero per dedicarsi agli affari internazionali. Collabora con Limes, il Messaggero, l’Huffpost e altre testate. Trascorre oltre 3 mesi in giro per l’Ucraina in guerra come reporter freelance, alternando interviste di respiro geopolitico ai funzionari governativi di Kiev al racconto della vita dei soldati in Donbas. Da lì nasce “Geopolitica. Capire il mondo in guerra” (Piemme, 2023), libro prefatto da Lucio Caracciolo e presentato alla Biblioteca della Camera dei Deputati. Da ottobre 2023, trascorre oltre un mese fra Israele e Palestina, dai confini della Striscia di Gaza alla Cisgiordania. Dal campo dei due conflitti in corso svolge collegamenti per La7, Rai, Mediaset e Repubblica TV, tenendo costantemente aggiornata la sua community Instagram. Dal marzo 2024 è autrice del podcast di geopolitica «Il Grande Gioco» dove ogni settimana racconta i fatti internazionali più importanti a partire dagli interessi delle tre nazioni più potenti al mondo: Stati Uniti, Russia e Cina. È spesso ospite in tv, radio, podcast, festival, scuole e università per commentare l’attualità internazionale. 
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