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Il muro ungherese e la guerra civile fredda contro i migranti

Il muro ungherese mostra l’artificiosa costruzione della cittadinanza europea. L’unione, edificata su principi e diritti comuni inalienabili (a cominciare dalla libera circolazione degli esseri umani), si scontra con la realtà di tare storiche che si contrappongono all’affermazione della società multiculturale.
A cura di Marcello Ravveduto
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Sin da quando l’uomo ha imparato a costruire recinti e a impilare pietre, ancor prima dell’uso della calce, il muro divisorio è stato il simbolo della proprietà privata, della volontà di proteggere il proprio territorio dall’intrusione di estranei. Su questo stesso principio si è affermata la geopolitica degli Stati nazionali separati da confini invisibili, ma invalicabili, difesi con la presenza attiva delle forze armate.

Molti muri sono stati eretti in epoca contemporanea per contenere i flussi di migrazione clandestina o per tenere divise etnie confliggenti: il muro che separa la Corea del Nord da quella del Sud (sulla linea del trentottesimo parallelo), il muro di Nicosia, che teneva distinti i greci dai turchi, le peace lines nell’Ulster che mantenevano a distanza i cattolici irlandesi dai protestanti inglesi, la barriera divisoria tra la Cisgiordania e Israele, quella innalzata dal Pakistan islamico nei confronti dell’India induista, quella costruita a Baghdad dagli americani per proteggere il quartiere sunnita Adhamiya dagli sciiti, il filo spinato di Ceuta e Melilla, enclave spagnole marocchine, per bloccare l’immigrazione della popolazione indigena, fino ad arrivare al muro eretto dagli Usa nei pressi della frontiera messicana di Tijuana per tenere sotto controllo gli accessi clandestini dei latinos.

Noi italiani, però, non siamo da meno. Abbiamo dimenticato il muro di Padova? Lo sbarramento, innalzato nell’agosto 2006, serviva a proteggere le abitazioni situate nei pressi di un rione periferico ad alta densità criminale (densità relativa visto che stiamo parlando di Padova e non certo di Milano). Oddio non era un vero e proprio muro ma una specie di palizzata di lamiera. Inoltre, la zona fu chiusa al traffico e al suo ingresso furono piazzati due posti di blocco per identificare eventuali trasgressori.

Perché si era arrivati a questa soluzione escludente? La posizione periferica e la grande economicità degli appartamenti aveva attirato in quella zona una quantità crescente di stranieri a cui veniva attribuita la responsabilità di aver fatto proliferare attività legate allo spaccio della droga e alla prostituzione, scatenando una serie di conflitti urbani. Con il passare degli anni le case sono state sgombrare e murate trasformando il rione in un ghetto fantasma.

Ora se pensiamo al muro che l’Ungheria vuole erigere per contenere la pressione dell’emigrazione serba immediatamente ci torna in mente, almeno a noi europei, il muro di Berlino e quella separazione che tenne divisi i popoli del continente sulla base di un principio ideologico. Una diversità che credevamo di aver superato con la fine della stagione dei blocchi contrapposti. Invece la fine della Guerra fredda, con l’affermazione dell’unilateralismo statunitense e la crisi post 11 settembre 2001, ha spostato l’attenzione internazionale sulla lotta al terrorismo, dentro la quale si è sviluppata la paura per i migranti di origine islamica, divenuta, poi, paura verso ogni forma di diversità culturale non assimilabile ai valori occidentali.

La Guerra fredda è terminata ed è iniziata la lotta per la difesa della civiltà, attentata dall’”invasione” di culture estranee, colpevoli di voler distruggere il benessere costruito dai paesi industrializzati. Cambiano le condizioni ma le motivazioni restano uguali: è il solito scontro tra le forze del bene e quelle del male. Solo che gli antagonisti questa volta non sono i comunisti ma gli emarginati del neoliberismo. Cittadini di serie b cresciuti, nel corso dei secoli, sotto la guida di paesi che prima li hanno sfruttati con la colonizzazione militare poi con quella dell’economia delle multinazionali.

Questi scarti umani ci spaventano perché hanno la pelle di un altro colore, professano religioni non cristiane, mangiano cibi differenti, vestono con abiti scadenti e soprattutto tendono a mantenere le loro abitudini con una scarsa capacità di integrazione. Un po’ come venivano descritti i comunisti: bestie trinariciute affamate di bambini e portatori di una peste sociale. Il razzismo ideologico è stato sostituito con il razzismo sociale a causa dell’impoverimento dei popoli ricchi che vivono lo stato di declino economico come una forma di decadimento nobiliare.

Vorrei insistere su un punto: la scarsa integrazione. Ancora oggi, alla terza e quarta generazione, gli immigrati italiani, in Usa e in America latina, mantengono fede alla propria identità ritrovandosi in comunità etniche che sono diventate lobby di pressione politica. Anzi molti di loro, soprattutto i meridionali, si riuniscono non sulla base di una comune appartenenza alla madre patria italiana ma in base alla città o al paese da cui sono partiti, spesso rigidamente suddivisi per regioni. Se questi italiani non avessero tenuto fede alle origini la pizza oggi non sarebbe il nostro piatto più conosciuto a livello planetario. Aver esportato la pizza in America, ovvero una nostra tradizione culinaria, ci ha consentito di costruire, nel più grande mercato del mondo, una specifica identità che oggi viene celebrata, nel bene e nel male, all’Expo di Milano.

Insomma, la nuova Guerra fredda si chiama lotta alla immigrazione ed è il portato delle diminuita capacità degli stati nazionali di governare i processi transnazionali. Una complessa situazione che Papa Francesco ha definito Terza guerra mondiale. I migranti che ci fanno paura, contro i quali innalziamo muri perché è finita l’epoca dei confini nazionali, sono il prodotto di un conflitto globale permanete senza più distinzione tra esterno e interno, tra pubblico e privato. Guerre decentrate che violano le convenzioni internazionali e i diritti umani, combattute da eserciti statali e mercenari; una violenza cieca in cui si perde la distinzione tra combattente armato e civile inerme, tra militare e criminale. Si costruiscono nuove identità settarie che sostituiscono quelle nazionali in una cupa atmosfera dove la discriminazione avviene sull’astrazione immaginaria del nemico, in un mondo popolato da rifugiati e fuggitivi a cui si oppongono i terrorizzati dalla globalizzazione, siano essi ricchi o poveri.

Con il tramonto del Novecento sembrano anche scomparire i diritti umani su cui si era costruita la convivenza del secondo dopoguerra.

Tutto questo, nella disintermediazione dei new media, alimenta stereotipi e luoghi comuni che amplificano il sentimento di insicurezza collettiva: nei social network gli orrori delle guerre lontane si mescolano al panico per reati della delinquenza comune, una combinazione esplosiva incontrollabile in cui il desiderio d’incolumità personale giustifica la violenza contro gli “invasori”; tutti rei – anche i bambini, gli anziani e gli inabili – di volerci sottomettere al loro stile di vita, approfittando della loro compassionevole condizione di povertà.

Nessuno è più in grado di scorgere gli uomini e le donne che realmente esistono dietro il nichilismo della cortina mediatica. Come ha detto Bergoglio: «le dinamiche dei media e del mondo digitale, quando diventano onnipresenti, non favoriscono lo sviluppo di una capacità di vivere con sapienza, di pensare in profondità, di amare con generosità». E aggiunge: «le relazioni reali con gli altri, con tutte le sfide che implicano, tendono ad essere sostituite da un tipo di comunicazione mediata da internet. Ciò permette di selezionare o eliminare le relazioni secondo il nostro arbitrio, e così si genera spesso un nuovo tipo di emozioni artificiali, che hanno a che vedere più con dispositivi e schermi che con le persone e la natura». È una febbre che può essere guarita solo scendendo in strada e partecipando direttamente agli eventi: solo allora potremo dire se sono persone che hanno bisogno di soccorso o delinquenti venuti ad inquietare i nostri sonni.

Il muro ungherese mostra a tutti noi quanto il processo di pacificazione e tolleranza costruito dall’Unione sia, in fondo, un artificio razionale: le azioni tese alla formazione della cittadinanza europea, edificata su principi e diritti inalienabili comuni (a cominciare dalla libera circolazione degli esseri umani), si scontrano con le tare storiche della diversità culturale che si contrappongono, come forze naturali revansciste, all’affermazione della società multiculturale. L’Europa è talmente condizionata dalla programmazione aurea di burocrati e banchieri da non accorgersi che, nel frattempo, la paura di dover cedere parte del proprio benessere sta frammentando le società nazionali. Una slavina a cui si sta reagendo con la chiusura, fisica e mentale, delle frontiere.

Non so dire se la barriera dei magiari è una nuova cortina di ferro dell’Europa globalizzata ma sicuramente è il sintomo di una condizione storica in cui agiscono fattori di lungo periodo: non dimentichiamo che solo vent’anni fa nei Balcani si combatteva una delle guerre civili più sporche di tutta la storia umana, in cui si amalgamavano, in unico calderone, scontri tra etnie, tra religioni, tra militari, tra civili, tra criminali, tra stati e tra classi sociali. Il fenomeno delle migrazioni di massa sta scoprendo lo stesso nervo sensibile.

E l’Italia? Come al tempo della Guerra fredda, per un paradosso della Storia (ma anche per la sua conformazione geofisica di piattaforma nel Mediterraneo – su cui affacciano tre continenti –), è ancora una volta un confine (in mondo ormai senza frontiere) non più tra due blocchi ma i tre i mille fronti aperti dalla guerra civile globale permanente.  Una “Terra di mezzo”, per dirla con Carminati (altro che Tolkien e il “Signore degli anelli”, quella è roba da fanciulli), sospesa tra globalizzazione ed emarginazione, rinchiusa in una sfera di conflitti e paure ma anche di resistenze e reazioni. Siamo la nazione a cui la “Grande Europa” ha assegnato il “lavoro sporco”: sostenere il “mondo di sopra” ai danni di quelli “di sotto”.

Un ruolo che ci si addice visto che nel corso dei secoli siamo stati sempre crocevia di flussi umani con popoli che arrivavano e partivano dopo aver fatto i loro buoni affari, legali o illegali. Eppure credevamo di essere cresciuti, di aver messo fine a questa storia di mescolanze, di appartenere ai grandi della terra e di poter godere la nostra ricchezza senza doverla spartire con nessuno. Poi è arrivata la Globalizzazione e ha sovvertito le nostre certezze. Ed eccoci qua, catapultati nel post Novecento con la sgradevole sensazione di essere schiacciati, da un lato, dalle violenze globali, che esplodono intorno noi, e, dall’altro, dai fatti criminali locali che ci atterriscono, mutando la nostra natura creativa di uomini d’arte nell’istinto di bestie rabbiose.

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