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Elezioni Congresso Usa, ecco perché Obama ha perso

Mai così lontanti il Presidente ed i suoi elettori. I democratici hanno perso 7 seggi chiave, consegnanto il Senato nelle mani dei Repubblicani vincitori anche alla Camera. Ora Obama avrà le mani legate fino a fine mandato.
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Una sconfitta così netta e pesante non rientrava nelle peggiori previsioni dei democratici americani. A poche ore di distanza dalla disfatta elettorale relativa al rinnovo del Congresso Usa (ovvero Camera dei Rappresentanti e Senato), gli esponenti del partito di Barack Obama si trovano a raccogliere i cocci e a ragionare sul perché della debacle che era sì nell'aria, ma che nella realtà è andata oltre i più cupi timori degli strateghi di Washington. La disfatta di ieri notte è considerata da molti analisti la sconfitta in primis del Presidente Obama, delle suo modo di governare il paese, dei suoi rapporti con i colleghi di partito e dei suoi provvedimenti amministrativi che, al momento, sono considerati tutt'altro che risolutivi o rivoluzionari per gli americani.

Gli errori di Obama

In questo momento secondo la Gallup, istituto di sondaggi Usa, l'indice di gradimento dell'inquilino della Casa Bianca è ai minimi storici essendo pari al 41 per cento dei cittadini usa (meno della meta del Presidente Russo Vladimir Vladimirovič Putin sostenuto, secondo l'ultimo sondaggio disponibili, da più dell'85 per cento della popolazione) e mettendo in evidenza il crescente distacco della popolazione verso il suo Presidente. La crescente impopolarità di Obama è legata, in estrema sintesi, a due aspetti principali: da un lato le riforme promesse e auspicate o non sono mai state compiute o non hanno suscitato gli effetti desiderati, facendo solo crescere il malcontento tra gli americani; dall'altro il grande blocco di sostenitori del primo Presidente afroamericano è venuto a mancare facendo perdere alla formazione democratica voti utilissimi come quelli delle comunità afroamericana e delle donne. L'origine di questa perdita di credito da parte di Obama risiederebbe nella, addebitata, scarsa attenzione dal punto di vista politico-riformatore agli interessi di questi gruppi sociali che dal 2008 (si ricordi che questo è il secondo ed ultimo mandato come Presidente per l'ex senatore dell'Illinois) hanno supportato e votato per l'attuale inquilino di Capitol Hill. I capi d'imputazione dunque che pendono sulla testa del numero uno della Casa Bianca riguardano sia le riforme annunciate e, in alcuni casi, disattese. che temi di politica nazionale ed internazionale affrontati in modo poco energico dalla sua amministrazione.

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La riforma del sistema sanitario, noto col nome di Obamacare, sebbene sia stata approvata è ritenuta al momento zoppa e poco efficace soprattutto per quelle fasce sociali meno abbienti che hanno composto una parte rilevante dei sostenitori del Presidente Usa. È opportuno ricordare che in questo caso, come in altri, l'ostruzionismo di fatto esercitato dalla Camera dei Rappresentanti (a maggioranza repubblicana già dalla precedente consultazione elettorale avvenuta nel 2010 e confermata ieri) non ha aiutato Obama a indirizzare secondo i suoi desiderata gli interventi amministrativi necessari a raggiungere risultati tangibili in tempi brevi. La riforma dell'immigrazione e il salario minimo, tuttavia, sono due altre patate bollenti che secondo l'opinione più diffusa negli Stati Uniti il numero uno della Casa Bianca non avrebbe gestito al meglio, riuscendo anzi a scontentare sia i suoi elettori storici che quelli potenziali (paradossale è il caso del salario minimo, avversato da alcuni suoi senatori poi puniti immancabilmente dalle urne) per l'atteggiamento ondivago e in alcuni casi inutilmente oltranzista, ovvero non teso alla mediazione bensì all'imposizione. Un altro aspetto negativo, di quella che viene ormai definito come un ciclo di presidenza mediocre, è il cattivo rapporto con i senatori e deputati eletti al Congresso. Se l'ostracismo verso i repubblicani è stato ritenuto accettabile nel corso dei due mandati, per quanto controproducente visto comunque il ruolo legislativo concesso alla Camera dalla Costituzione Usa, lo stesso atteggiamento quanto meno poco incline al dialogo verso i colleghi di partito (presenti al Senato o alla Camera dei Rappresentanti) è stato giudicato invece altamente negativo per l'operatività stessa del Presidente e delle sue riforme.

I dissidi tra il Presidente e i colleghi di partito

In molti, poi, hanno sottolineato come Obama non avesse – al momento dell'elezione -, una conoscenza approfondita della macchina presidenziale, imputandogli più di una volta scarsa attenzione a dinamiche e procedure che, se rispettate, avrebbero potuto giovare al suo rapporto con gli altri rappresentanti del popolo Usa. Il Presidente è stato anche fortemente criticato per la poca lungimiranza delle politiche energetiche, in particolar modo relative al gas (dove è d'uopo ricordare che Obama ha provato a difendere posizioni ambientalista a fronte delle potenti lobby del petrolio), sia per aver gestito male e in ritardo le numerose crisi internazionali che nel corso degli ultimi mesi si sono succedute soprattutto in Medio Oriente e Europa Orientale. La disaffezione dell'elettorato Usa ad Obama, la scarsa lungimiranza del Partito Democratico Usa verso piattaforme politiche più attente alle necessità dei suoi elettori, hanno condotto al tracollo nelle elezioni di medio termine. In termini numerici la vittoria più sonora dei repubblicani è avvenuta in Senato, dove la formazione conservatrice non vinceva dal 2006, riuscendo a strappare sette seggi (rispettivamente degli stati Arkansas, Colorado, Montana, Sud Dakota, West Virginia, Carolina del Nord e Iowa) ai colleghi dei democratici e portando allo stallo della politica Usa. Questo perché Obama fino a scadenza di mandato, ovvero nel 2016, sarà di fato bloccato dai contrappesi del Congresso intero (il Senato ha maggiore potere decisionale rispetto alla Camera e ora è tutto in mano repubblicana) che – salvo un miracolo diplomatico di difficile realizzazione – cercherà di limitare il più possibile l'autonomia del Presidente Usa (che rimane in ogni caso il titolare delle linee guida in politiche di Difesa ed Esteri) e che governerà di fatto per un altro anno e mezzo.

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