Duello a Trieste. Pronti per lo show down più atteso, da mesi, nella finanza italiana? Non sto parlando dello scontro tra gruppi concorrenti (concorrenza? In Italia sembra una brutta parola) nei settori del credito o del risparmio gestito, né di qualche turbolento passaggio di testimone generazionale (non che ne siano mancate negli anni, dai “re” del lusso italiano, i Gucci, ai proprietari della catena di supermercati Esselunga, i Caprotti, col fondatore e da tempo in lite coi propri figli). No, sto parlando dello scontro che si profila sabato 2 giugno a Trieste in un Cda del gruppo Generali convocato per valutare l’eventuale sostituzione dell’amministratore delegato, Giovanni Perissinotto, “sfiduciato” dall’azionista di controllo della compagnia, la banca d’affari milanese Mediobanca dopo le tensioni accumulatesi per mesi e sfociate in alcune dichiarazioni di Perissinotto contrarie al salvataggio di Fondiaria-Sai da parte di Unipol. Per chi non fosse addentro alle storie dei “salotti buoni” che da decenni comandano (e sostanzialmente tengono cristallizzato, nel tentativo di preservarlo) il “capitalismo familiare” italiano, faccio un passo indietro. Mediobanca è il perno di una rete di legami che parte da Generali, si allarga a Fondiaria-Sai e arriva in Unipol: forse per questo proprio l’operazione di “salvataggio” del gruppo Ligresti (a lungo “accudito” da Piazzetta Cuccia) da parte di Unipol ha finito col creare attriti fortissimi tra Milano e Trieste, con voci di un possibile rinnovo dei vertici che hanno a fasi alterne riguardato la banca d’affari (fino a inizio aprile c’era chi non escludeva l’uscita di scena, su pressione di alcuni “soci forti”, dell’amministratore delegato di Mediobanca, Alberto Nagel, nell’ambito di una presunta staffetta con Renato Pagliaro, che avrebbe dovuto a sua volta cedere la poltrona di presidente ad un manager esterno all’istituto) e la sua controllata triestina (dove la posizione dell’amministratore delegato Giovanni Perissinotto è apparsa in questi mesi sempre più sotto pressione a causa delle crescenti frizioni coi soci forti, acuite dal calo delle quotazioni del leone di Trieste in borsa).
Legami consolidati. Il legame di Piazzetta Cuccia coi protagonisti della vicenda è del resto di quelli “consolidati”. Fu Mediobanca, azionista di controllo di Generali che fece in modo, nel 1986, che Fondiaria finisse nelle mani della Ferruzzi Finanziaria guidata da Raul Gardini (che di lì a poco avrebbe rilevato anche il controllo di Montedison) e sempre Mediobanca, nel luglio del 2001, “pilotò” la cessione da Montedison alla Sai di Salvatore Ligresti (da sempre vicino ad Enrico Cuccia prima e al suo successore Vincenzo Maranghi poi) della partecipazione in Fondiaria (e contemporaneamente quella di Burgo al finanziere bretone Vincent Bolloré, capofila dei soci francesi di Piazzetta Cuccia), evitando così che finisse nell’orbita di Toro Assicurazioni, all’epoca del gruppo Agnelli (a cui si deve la nascita, nel 1921, dei Sai stessa poi ceduta nel 1977 a Raffaele Ursini, fondatore di Liquigas, che la rivendette a Salvatore Ligresti dieci anni dopo) ma poi rilevata da Generali nel 2006. Ancora Mediobanca nel 2003 cedette, su pressione dell’Antitrust, la propria residua partecipazione in Fondiaria-Sai (l’8,9%) mantenendo solo più una quota del 2% (ma stipulando allo stesso tempo un contratto di equity total return swap di durata quinquennale che avrebbe consentito, nel caso, di tornare in possesso dei titoli ceduti). Così quando i conti hanno iniziato ad andare male nessuno si è stupito che sia stata Mediobanca a trovare il modo di aiutare i Ligresti, dopo il dietrofront di Groupama e un primo “sacrificio” di UniCredit lo scorso anno, favorendo l’avvicinamento del gruppo Unipol, già debitrice di Piazzetta Cuccia e ai cui soci (Finsoe) sembrava poter concedere finanziamenti per sostenere l’operazione.
Le azioni si pesano ancora? Legami troppo incestuosi per non far sospettare a qualche analista e investitore che la scelta di Unipol fosse non già quella migliore nell’interesse degli azionisti di minoranza di Fondiaria-Sai, quanto quella in grado di offrire maggiori garanzie a Mediobanca sia sotto il profilo delle garanzie sui propri crediti sia della minor concorrenza a Generali (forte soprattutto nel Vita, mentre il nuovo aggregato sarebbe leader nei Danni). Un’operazione, insomma, all’insegna dell’antico motto di Enrico Cuccia secondo cui “le azioni non si contano, si pesano”, più che al principio di legge che tutti i cittadini (e dunque tutti gli azionisti) sono uguali di fronte alla legge (e dunque dovrebbero godere dei medesimi diritti). Ma che a professare di nutrire “seri dubbi sulla visione strategica dell’operazione, non solo per l’inquietante prova che non si può certo ignorare riguardante la salute finanziaria di quello che dovrebbe essere il salvatore” potesse essere proprio il numero uno di Generali non molti se lo sarebbero aspettato. Inevitabile a questo punto la reazione di Carlo Cimbri, numero uno di Unipol che oggi parla di necessità di chiarire queste affermazioni e chiede a Perissinotto di rettificarle “là dove ledono arbitrariamente e ingiustificatamente l’immagine e gli interessi” di Unipol. Così quella che era nata come una disfida tra Mediobanca e Unipol da una parte e il mercato dall’altra e si era poi trasformata in una serie di “distinguo” tra Premafin, Fondiaria-Sai e Unipol dopo l’intervento della Consob che ha concesso l’esenzione dall’obbligo di Opa solo a condizione che non venisse fatto un trattamento di favore a don Salvatore e famiglia, si sta trasformando nella resa dei conti tra i vertici di Mediobanca, quelli di Generali e i rispettivi azionisti “forti”, con la possibilità che a succedere a Perissinotto sia, prima del previsto, Mario Greco, ex numero uno di Ras che fonti finanziarie vogliono in pole position per subentrare al comando del leone di Trieste. Sempre che Perissinotto, che è pronto a dar battaglia e che pare aver inviato una lettera ai consiglieri di Generali accusando Mediobanca che ancora “pensa di avere diritti speciali” sulla compagnia di Trieste, non tiri fuori qualche asso dalla manica o l’intero piano di salvataggio fin qui proposto non crolli come un castello di carte su concambi, valutazioni e scontri sulla governance, oltre che sugli uomini chiamati a gestirla. Di certo uno scontro così violento i vellutati “salotti buoni” della finanza italiana non erano più abituati a vederli dagli anni Ottanta, quando Mario Schimberni, manager di fiducia di Cuccia, sfidò il suo “padrino” sfilando prima la Bi-Invest alla famiglia Bonomi (peraltro tornata in questi anni tra i protagonisti della scena attraverso il fondo Investindustrial, di recente entrato con un ruolo di primo piano nel capitale di Banca Popolare di Milano), poi dando l’assalto a Fondiaria. Storie d'altri tempi, che però nel gattopardesco Belpaese dove i vecchi comandano e ai giovani restano le briciole sono sempre d'attualità, con al massimo qualche nome diverso a livello di uomini, ma non di aziende e gruppi di potere.