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Debutta oggi “Il panico” di Ronconi. Intervista a Rafael Spregelburd

Drammaturgo argentino autore del testo in scena al Piccolo di Milano, Rafael Spregelburd ci racconta il suo teatro.
A cura di Simone Petrella
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il panico

Rafael Spregelburd, classe 1970, è un drammaturgo, attore e traduttore argentino. I suoi testi, tra cui "Bizarra", "La modestia", "La paranoia", "La stupidità" – tradotti in molteplici lingue come tedesco, inglese, italiano, portoghese, russo e francese – hanno riscosso grande successo in Argentina e in Europa, vincendo numerosi premi. Oggi debutta al Piccolo di Milano "Il panico", seconda collaborazione con Luca Ronconi, dopo la messa in scena de "La modestia" nel 2011.

S.P. I suoi testi in Italia stanno riscuotendo sempre più successo. Essere messi in scena da Ronconi potrebbe considerarsi una consacrazione. Quali sono stati i vostri rapporti?

Ronconi

R.S. Ronconi è uno dei pochi maestri che la storia del teatro ci permette di vedere in azione. È ovviamente un onore raro sapere che sia interessato al mio lavoro. Quando ero a Sarazana, al "Festival della Mente", lo scorso settembre, l’ho sentito lodare le mie opere in un modo che mi ha fatto arrossire. Ho pensato: ok, quale linea sottile lega i classici (che sono da sempre il principale interesse di Ronconi) alle le mie maldestre avventure teatrali? Non ho mai pensato di avere niente a che fare con i classici, una raccolta di verità astratte che appartengono essenzialmente all'Europa. Ma allo stesso tempo ho sempre la sensazione, come autore, che se la tua opera ha davvero un po' di sostanza, saprà sopravviverti e trovare la propria strada nel tempo. Io non sono affatto bravo a prevedere cose del genere, ma per il momento questo è un inizio fantastico. Quando mi sento confuso o perso mi dico "attento, ragazzo, Ronconi si è interessato a te", e sento che non sto poi facendo le cose in modo così sbagliato. In realtà io e Ronconi abbiamo parlato molto poco, solo in due o tre occasioni. Penso che abbia scelto questo mio testo per qualche suo motivo particolare, facendomi capire che sarebbe stato molto fedele alle proprie intuizioni. Questa è la miglior garanzia che si possa ottenere da un regista. Allo stesso tempo Ronconi, a differenza di diversi registi tedeschi che ho incontrato, sembra essere molto rispettoso dello spettacolo su cui lavora. Non ha bisogno di distruggerlo e riformularlo di nuovo, si lascia guidare dalle idee e dalle immagini nel testo. Ronconi si trova ad affrontare una procedura molto complicata: le mie commedie sono state scritte come sottili piani diabolici per teatri piccoli, non le ho mai messe in scena in teatri con più di 200 spettatori. Lui è costretto a compiere alcune importanti scelte visive per far sì che lo spettacolo funzioni in un formato più grande. Un'avventura in più.

S.P. Come è nato "Il panico"?

R.S. È stato un processo molto particolare. Mi era stato chiesto di dirigere il lavoro di laurea di un gruppo di studenti del IUNA (Istituto Nazionale per le Arti a Buenos Aires). C’erano – come capita spesso – molte donne in questo gruppo e meno uomini. Io non li conoscevo e loro non mi conoscevano. Così ho pensato che sarebbe stato impossibile lavorare insieme. Ma poi ho suggerito al gruppo di lavorare liberamente per qualche tempo, come in un laboratorio. Ho chiesto loro di non preoccuparsi, per un po', di avere un testo finito. Abbiamo lavorato quasi esclusivamente con materiale molto personale: ogni attore è stato trasformato in un elemento insostituibile, perché la sua storia e le sue espressioni sono state realizzate partendo dal proprio bagaglio personale. A un certo punto del lavoro eravamo in forte confidenza e solo allora ho deciso di scrivere il testo. Ho usato molte cose che avevano fatto parte del laboratorio e ho completato il resto dei testi. Ho sempre pensato che "Il panico" sia uno dei miei spettacoli più "irregolari", come forma: non ha simmetria o armonia ed è composto da pezzi con stili contraddittori. Ma questa, con il passare del tempo, è diventata una regola nel mio lavoro. Ho scritto questa commedia durante il caos generale che nel 2001, in Argentina, è stato provocato dalla crisi finanziaria e sociale. Il testo è cosparso di riferimenti molto amari e strani a un paese che stava letteralmente scomparendo. Un lettore straniero potrebbe non essere in grado di riconoscere questo aspetto ed è per questo che mi ha sorpreso molto il fatto che “Il panico” sia stato prodotto in città così lontane: da New York a Milano, da Monaco a Ginevra, da Usti-Nad-Labem al Messico. Ci deve essere qualcosa in quest’opera, una cosa senza nome, che attira registi di tutto il mondo, e penso che sia proprio la sua irregolarità misteriosa: offre un vasto territorio per fare echeggiare il testo tra voci diverse.

Teatro Strehler

S.P. Che rapporto ha con il teatro? Ha ancora fiducia nell'idea che possa essere un mezzo di espressione comprensibile e utilizzabile?

R.S. Il teatro è il mio modo di essere nel mondo. Io in realtà non credo che il teatro sia una cosa rilevante: la maggior parte delle persone intorno a noi pensano che potrebbero effettivamente farne benissimo a meno; ma a me offre una fantastica opportunità di trovare la mia strada nel caos che il mondo è diventato. Il teatro mi permette di pensare bene, ma in termini molto imprecisi e credo che questa sia una buona definizione dell’arte di oggi: gli artisti non sono semplici informatori dello stato del mondo, ma piuttosto pensatori di ciò che è impreciso, impensabile, indicibile. Non credo che possiamo usare la parola "comprensibile" applicata all'arte: la comprensione non è la sua funzione principale. A volte lo è, a volte non lo è. La storia dell'arte è piena di esempi di artisti che non sembrano "comunicare" con i loro contemporanei e che, col passare del tempo, sono diventati il modello della vera e propria arte, al contrario di quelli che fanno solo prodotti gradevoli.

S.P. Il teatro è ancora una forma d'arte che interessa il pubblico o rischia di chiudersi sempre più in uno spazio ristretto pur di sopravvivere?                                                                                                                                                                                                         

R.S. So che questa è una domanda urgente in Italia, dove il teatro sta attraversando una fase molto critica, a causa dell'abbandono di alcuni modi tradizionali di finanziare questa forma di cultura. Ma io vengo da una città in cui ci sono più di trecento teatri, non tutti troppo confortevoli o attrezzati, ma per la maggior parte sicuramente pieni. Le persone nel mio paese sono assetate di teatro. Questo è un lusso di cui ci possiamo veramente sentire orgogliosi. I giovani vanno molto a teatro: pensano che sia divertente. E lo è! In teatro si possono sentire cose che non sono filtrate dalle esigenze di grandi interessi commerciali: non c'è nessuna misura, non sono coinvolte grosse somme di denaro che costringano il teatro a diventare più accessibile, ecc. Non c'è mediazione. Il teatro per noi è un modo molto semplice, molto diretto, molto onesto per parlare del mondo. A differenza di altre città che ho conosciuto, il teatro di Buenos Aires sembra essere più in salute con il passare del tempo.

Rafael Spregelburd

S.P. Quanto dei mutamenti sempre più rapidi del mondo rientra nei suoi testi, e come?

R.S. Non è tra i miei obiettivi principali lasciare una testimonianza del modo in cui il mondo sta cambiando. Ma quando ci si mantiene fedeli allo spirito del tempo, quando si tenta realmente di agire come un'antenna del mondo che ci circonda, le cose trovano la loro strada attraverso la scrittura. Credo di dovere molto alla teoria del caos, al concetto di entropia, alla teoria delle catastrofi, alla geometria frattale, cose che forse un autore non avrebbe potuto immaginare 100 anni fa. Il mio vantaggio (il mio unico vantaggio) rispetto ai classici è che vivo qui e ora. Mi sento in dovere di utilizzare questo vantaggio. Ma questo, in ogni caso, non è garanzia di qualità. Hai ancora bisogno di essere un buon poeta, uno scrittore fine, per dare forma a tutte queste idee che fluttuano intorno a noi.

 S.P. I suoi testi sono scritti a tavolino e poi verificati in scena o segue un percorso di scrittura che tiene già presente l'esperienza scenica e che si nutre di essa?

R.S. I miei testi conoscono poche regole. Ho fatto di tutto. Ma credo di sentirmi più a mio agio quando scrivo direttamente sul palco, osservando come l’opera si evolve con i miei attori. Se potessi, mi piacerebbe lavorare sempre così. Ma non è sempre possibile. A volte mi è stato chiesto di scrivere un testo con determinate condizioni e allora devo lavorare alla cieca, sperando che le scelte che faccio funzionino poi sul palco. A volte ha funzionato, a volte no e ho dovuto riscrivere la maggior parte del testo. Sono molto bravo a riscrivere. Probabilmente più bravo che a scrivere…

S.P. In questo momento sta scrivendo nuovi testi? Vuole parlarcene?

R.S. Sto completando un testo nuovo, "Spam". Sto provando questo testo a Napoli con l'attore Lorenzo Gleijeses e il musicista Alessandro Olla; è uno spettacolo che interpreterò anche io come attore a Buenos Aires, nel mese di ottobre, ma la prima mondiale sarà al Napoli Teatro Festival e al Festival delle Colline Torinesi, in lingua italiana. È una bella sfida, perché sto dirigendo un attore in qualcosa che ho intenzione di fare io in seguito. Le versioni saranno probabilmente molto diverse. È una storia complicata, in cui l’ordine delle scene è sorteggiato ogni sera, così non si vede mai lo spettacolo per due volte nello stesso modo. Ma il meccanismo è molto difficile e pieno di sorprese. Allo stesso tempo, sto lavorando a due progetti di spettacolo nati durante i miei seminari presso "L'Ecole des Maîtres" di Udine, Coimbra, Liegi e Reims. Sono stato il maestro di quest'anno e come risultato ho due progetti molto interessanti: stiamo cercando di produrli per il 2014. Gli spettacoli sono provvisoriamente chiamati "La fine dell'Europa" e "Bozze per la fine dell'Europa", sono come un lato A e un lato B della stessa cassetta. Un'esperienza molto folle con diciassette attori provenienti da quattro paesi diversi. Infine il Buenos Aires Festival quest’anno proporrà una retrospettiva sul mio lavoro, quindi, invece di scrivere un sacco di nuovo materiale, dovrò rianimare 4 o 5 vecchi testi. È uno strano piacere rivisitare questi materiali e anche un lavoro molto duro, perché siamo pochi attori nella mia compagnia, il che implica provare 4 o 5 cose allo stesso tempo. Ma ce la caveremo. Il teatro è ciò che amiamo fare.

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