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The Life Of A Showgirl di Taylor Swift è un elenco di sbagli che non ha nulla di speciale

Taylor Swift ha pubblicato The life of a Showgirl, un album con enormi criticità sia a livello di musica che di testo e di idea generale: un po’ di disco-pop lento e mal suonato, qualche passaggio rock adolescenziale fuori tempo massimo, sdolcinatezze a cui nemmeno la cantante sembra credere fino in fondo.
A cura di Federico Pucci
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Taylor Swift
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Anche Taylor Swift è umana. E gli esseri umani, di tanto in tanto, sbagliano. L’ultimo album fresco di stampa della più ricca e influente cantautrice al mondo, però, è un lungo elenco di sbagli. Che cominciano prendendo in mano l’album. In passato i dischi di Taylor Swift hanno fatto spesso un uso sapiente dell’estetica visuale, intrecciandola all’aspetto lirico-narrativo e al suono delle tracce – del resto, è anche con le copertine alternative che si vendono molte più copie dei dischi, e qualcosa su questi artwork divergenti andrà stampato. folklore ed evermore mostravano scenari boschivi e bucolici, e di conseguenza le canzoni avevano il suono del legno, l’essenzialità di chi idealmente è in ritiro in una capanna tra gli alberi e le figure da mito americano del (ehm) folklore otto-novecentesco della costa est, dove peraltro Swift svernava.

Midnights era un disco urbano e (ehm) notturno, forse lievemente lisergico, e di nuovo tutto tornava. Anche tornando più indietro a un 1989 notiamo un filo che unisce l’estetica disordinata e memorialistica ai testi diaristici da giovane adulto che sta crescendo e imparando a destreggiarsi nella vita, in perfetto equilibrio con un suono che cercava sempre il compromesso tra drammatico e gioioso, tra esuberante e pensieroso. Ecco, qui tutta questa coerenza manca.

La showgirl – dobbiamo presumere togliendo un po’ di strati di autoironia e contro-sarcasmo rivolto ai critici – è Taylor Swift in persona. "La vita di" già dovrebbe farci intuire che stiamo per assistere a una collezione disordinata e incompleta di episodi, come quasi tutte le autobiografie che non hanno la fantasia di trovare un titolo migliore. E da subito l’immaginario da soubrette e cabaret salta per aria. Nel primo brano Taylor Swift racconta di come ha evitato la fine di Ofelia grazie al suo principe azzurro che l’ha tirata fuori dalla tomba (Biancaneve, zombie e Shakespeare in un solo respiro).

Il tutto in un brano synth-pop affannato, che ricorda vagamente la progressione armonica e il tempo lento di Summertime Sadness e non ha nulla di coerente all’immaginario di lustrini e teatralità del concept. Non solo, il ritornello contiene una pausa (tra “see it all” e “late one night”) che sembra interminabile: forse vuole rappresentare la noia dell’attesa nella fiabesca torre (aggiungiamo anche Raperonzolo al confusissimo immaginario!), ma la cassa che batte in solitudine sopra un synth per quasi una battuta ha davvero poco di emozionante, specie per come spezza una melodia che altrimenti, se meglio cesellata, sarebbe stata l’ennesima locomotiva inarrestabile della sua carriera. Insomma, cominciamo male.

La seconda traccia ha una showgirl nel titolo (Elizabeth Taylor, che ha il cattivo gusto di menzionare subito al primo verso, tanto per non farci confondere) e sembra parlare effettivamente di showbiz, ma con un vittimismo che conosciamo bene: Hollywood non mi vuole bene, quindi me ne sto a New York, e meno male che ci sei tu, con una pacchianissima mareggiata di eco e riverbero su questa considerazione sentimentale che la fa sembrare ancora più posticcia, un elemento di umanità appiccicato alla solita lamentela da outsider. (La più ricca outsider del mondo, si intende). E del resto, come si può leggere in modo sincero il suo desiderio di fiducia se subito dopo "darei in cambio il mio Cartier per una persona di cui fidarmi" aggiunge "sto scherzando"?

Taylor Swift
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Non stonano solo le parole: anche la produzione slow jam funky che domina le strofe non brilla nelle mani di due altrimenti ineccepibili professionisti come Max Martin e Shellback: non solo la sua presenza è puramente funzionale a far risaltare la cassa spessa del ritornello, e quindi risulta del tutto pretestuosa, ma non ha nemmeno tutto questo groove. Una situazione simile si presenta più avanti in Ruin The Friendship, un altro pezzo stilizzato intorno a un groove di basso e batteria che suona molto efficiente e molto noioso. Oltre ai gioielli Swift potrebbe investire qualche soldo in una band a modino, che sappia il fatto suo quando maneggia materiale classic rock.

A proposito di produzioni stilisticamente confuse, e genericamente passatiste, arriva Opalite, una canzone buona se solo il suo arrangiamento decidesse cosa vuole essere: ABBA, country pop o Dua Lipa. Mammammaria, viene da dire citando i nostri Ricchi e Poveri, perché quella discesa “oh oh oh” che chiude il ritornello sottolineando la cadenza appartiene al reame delle filastrocche, non delle popstar: non la fine che questa riflessione sulle proprie cattivi abitudini sentimentali meritava. E di showgirlismo di nuovo nessuna traccia.

Father Figure è il primo brano che funziona quasi per intero: adottare la prospettiva di un personaggio che si vuole attaccare satiricamente è una mossa da classica Swift che, se ben eseguita, non stanca anche perché cambia il punto di vista, rinfrescando il racconto. E musicalmente tutto fila liscio, finché non arriva una modulazione assolutamente gratuita. Certo, fa il suo lavoro di rilanciare la canzone prima che il giro d’accordi diventi stantio e infonde potenza in una melodia che era a un passo dall’afflosciarsi: ma la sua funzione nell’economia del brano è inesistente. Una mossa da principianti che forse si poteva evitare lavorando un altro po’ sulla traccia.

Con Eldest Daughter, invece, cominciano i problemi veri. Il testo è di una banalità terrificante: su internet sono tutti punk, ogni battuta è solo trollaggio e meme, l’apatia è fica. Ok, boomer. La necessità che si avverte qui e là di svecchiare il linguaggio e l’immaginario, come qui o in “keep it one hundred” (The Fate of Ophelia) sembra avere l’effetto opposto. Farci notare quanto la cantautrice sia invecchiata insieme a noi, e non nel migliore dei modi. Il che sarebbe anche naturale e giusto, se solo Taylor Swift affrontasse il tema, anziché girarci intorno e dipingersi sempre come una giovane ragazza. Peccato, perché la rima “every eldest daughter was the first lamb to the slaughter” funziona nel testo e nella musica: il mio sospetto è che si tratti del nucleo di partenza del brano, sopra il quale è stato costruito qualcosa di molto meno interessante.

Actually Romantic, invece, è un buco nero di sbagli. Prima di tutto c’è la produzione rock sporca, pseudo-grunge, che dopo anni di Gayle e Chappell Roan e Olivia Rodrigo (proprio quella che fu accusata di aver copiato Swift!) ora suona a dir poco derivativa: la maestra ha copiato le alunne, si potrebbe dire. E questo senza contare il terzo accordo della progressione, preso di peso da Where Is My Mind? dei Pixies – ma ormai questo prestito è stato compiuto da così tanti artisti, che il vero crimine è la mancanza di originalità. E poi arriva un testo al limite dell’hate speech, che si può speculare in piena tranquillità sia rivolto a Charli XCX che aveva parlato con molta vulnerabilità del suo rapporto con Swift nel brano Sympathy is a knife, e che di tutta risposta si vede arrivare una diss track piena di insulti e allusioni alle sue abitudini ricreative. Un passo talmente falso che varrà la pena tornarci singolarmente in un secondo momento.

Non minore è il fallimento di Wi$h Li$t, che sembra contraddire buona parte della poetica di Taylor Swift. Dopo aver costruito una carriera sul desiderio di tenere insieme le contraddizioni dei modelli femminili moderni, dopo aver descritto le pulsioni opposte di questa tensione tutta moderna e post-femminista, questa canzone sembra cucita addosso alle tradwife di TikTok che amano dipingersi per il loro pubblico come madri e nulla più. Ma se fosse solo questo, sarebbe legittimo. Meno brillante è l’uso di una miriade di esempi di successi artistici e lavorativi come scelte da lasciare agli altri; ancora meno brillante, e anzi decisamente odioso è che in questa gara a chi se ne frega di più delle scelte altrui finiscano sotto il treno anche scelte di vita assolutamente legittime. “Meritano tutto quello che desiderano”, dice Swift: ma a quale voce dobbiamo credere, quella sarcastica o quella sincera? Il pubblico deciderà da solo, e se assisteremo a wave di donne conservatrici che si filmano mentre esaltano (in modo del tutto performativo) la loro vita da diciottesimo secolo, sapremo che direzione avrà preso il brano.

Taylor Swift
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Davanti a brani così, o alla puerile esaltazione delle amicizie “pericolose” (virgolette d’obbligo) di CANCELLED! verrebbe da chiedere a Swift se sta bene, se troppo football americano frequentato per assistere alle partite del compagno non le abbia provocato un trauma cranico a sua volta. Perché il vittimismo raggiunge un picco di ultrasaturazione: se nel disco dell’anno scorso usava una leggerissima iperbole per dipingersi come se fosse spinta al patibolo dai suoi critici, qui addirittura si prova a vendere un’immagine da bad boys e bad girls che farebbe ridere se non facesse tristezza in questo preciso frangente storico.

Mentre persone popolari quasi quanto Swift mettono in gioco la propria popolarità a sostegno del popolo palestinese, mentre camaleonti conservatori come Nick Cave avanzano la teoria “né con la destra né con la sinistra” per non prendere posizione su un genocidio, mentre molti scelgono di non dire assolutamente niente (il che è a suo modo legittimo), Taylor Swift si racconta come una ragazzaccia che dice cose pericolose. In altre circostanze avrebbe funzionato, ma non oggi.

Quindi è tutto da buttare? No, Wood è la canzone che più di tutte mantiene quel che il disco promette: la descrizione degli alti e bassi della vita da showgirl raccontata metaforicamente attraverso una storia sexy buffa narrata sopra un beat discomusic (comunque privo di groove, quasi scolastico). Qui il cattivo gusto di parlare di bacchette magiche e legni sarebbe anche giustificato: il problema è che Swift sta ai doppi sensi del funk come Vanilla Ice stava alla coolness rimata dell’hip-hop, quindi questa canzone va dritta nel deposito dei guilty pleasure, che sarebbe meglio non farsi vedere in giro ad ascoltare. La title-track, d’altro canto, con uno storytelling chiaro e meno manie di protagonismo fila alla grande, complice una progressione coinvolgente, un bridge che spiazza le aspettative e un accenno di struttura rapsodica: il fatto che arrivi per ultima dopo un ascolto faticoso è significativo, ma anche corretto, perché premia la pazienza di chi, nonostante tutta la mediocrità ascoltata, vuole dare ancora una chance alla più ricca popstar di sempre.

The Life Of A Showgirl è una versione mal riuscita di Lover con il cattivo umore di Reputation e la hybris di Tortured Poets Department, senza l’ingegnosità musicale di nessuno dei tre. Se molti dei difetti di questo album possono attribuirsi a un’eccessiva fretta di pubblicarlo, in tempo per il suo matrimonio con Travis Kelce o chissà quale altra data nel suo masterplan geniale, c’è un problema di fondo che per essere risolto ha bisogno di molto più che il tempo: cosa sarebbe di Taylor Swift senza i suoi nemici immaginari, e cosa sarà della sua poetica nel momento in cui il mondo sarà meno clemente verso il narcisismo. Finché questo tratto di carattere sarà funzionale ai propri microracconti pseudoswiftiani, finché piacerà ai nostri algoritmi, la cantautrice americana sfamerà ancora piccole manie di protagonismo e vittimismi piccini.

Per noialtri che cerchiamo solo buone canzoni da ascoltare, invece, il pasto è magro e banalotto. Un po’ di disco-pop lento e mal suonato, qualche passaggio rock adolescenziale fuori tempo massimo, sdolcinatezze a cui nemmeno la cantante sembra credere fino in fondo. Forse la vita di una showgirl è esattamente questo: sentirsi obbligata a pubblicare un album all’anno, comunque venga, e a fomentare rivalità anche quando non ce n’è alcun bisogno. Nel qual caso, non possiamo che augurare a Swift esattamente quello che desidera: una casa piena di figli e luoghi comuni, lasciando che siano altre persone a rifornirci di musica pop.

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