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La Netflix della cultura immaginata da Franceschini esiste già e si chiama Rai

La proposta lanciata dal ministro Dario Franceschini di una “Netflix della cultura” non può essere immaginata come uno strumento credibile per rispondere alla crisi del mondo dell’arte e dello spettacolo dal vivo, né in prospettiva, né come strumento-ponte. E se proprio volessimo costruire una piattaforma di contenuti culturali perché non rivoltare la Rai come un calzino e farla entrare finalmente nel terzo millennio?
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Qualche giorno fa ha fatto la sua apparizione sulle agenzie di stampa la proposta del ministro Dario Francheschini di una "Netflix della cultura". Siccome finora non c'è traccia di un ragionamento articolato in cosa consista realmente questa piattaforma, dobbiamo affidarci alle parole del titolare del MiBact rilasciate a Massimo Gramellini su Rai3:

Stiamo ragionando sulla creazione di una piattaforma italiana che consenta di offrire a tutto il mondo la cultura italiana a pagamento, una sorta di Netflix della cultura, che può servire in questa fase di emergenza per offrire i contenuti culturali con un’altra modalità, ma sono convinto che l’offerta online continuerà anche dopo: per esempio, ci sarà chi vorrà seguire la prima della Scala in teatro e chi preferirà farlo, pagando, restando a casa. In queste settimane di lockdown si è capita fino in fondo la potenzialità enorme del web per la diffusione dei contenuti culturali, c’è stato un esplodere di creatività, ed è proprio questa la base di partenza per sviluppare un progetto più strutturato.

Di quest'idea – che in teoria non contiene nessun dato negativo – chiunque si occupi di cultura conosce gli aspetti che la rendono poco più di un placebo per il mondo dello spettacolo e dell'arte. Nel senso che è chiaro – siamo sicuri lo sappiano anche al ministero ai Beni culturali e del Turismo – che nessuna fruizione televisiva potrà mai sostituire l'esperienza condivisa, dal vivo, dell'espressione teatrale musicale e lirica, per non parlare dei musei e siti archeologici. Motivo per cui ben vengano anche le petizioni per portare più teatro in tivù, anche se a nostro avviso il problema resterà come fare in modo che le persone stiano meno davanti alla tivù e vadano di più nei teatri. E, in questa fase di crisi, sostenere gli artisti, le maestranze, i tecnici e i lavoratori del comparto culturale.

L'esperienza dal vivo della cultura è insostituibile, innanzitutto, per ragioni artistiche e sociali (il gesto teatrale, ad esempio, è per sua natura il luogo dell'irripetibile, del condiviso, della comunità che si specchia in sé attraverso la scena), ma anche per ragioni economiche, perché nessun teatro (dai "finanziatissimi" nazionali ed enti lirici alle piccole sale di periferia) può trovare una dimensione di sostenibilità economica riducendo se stesso a puro studio di registrazione per contenuti televisivi. Naturalmente, in questo momento, il comparto è alla canna del gas e gli andrebbe bene qualsiasi prospettiva – persino quella di trasformarsi in un "service" – pur di ricominciare, ma è chiaro che a lungo termine la "Netflix della cultura" può essere immaginata soltanto come uno strumento complementare e non sostitutivo. Insomma, che il virus permanga o meno bisogna escogitare un modo innovativo (forse dovrà essere persino geniale) per continuare a fare cultura come l'abbiamo sempre fatta, non relegando quel mondo dietro uno schermo. Altrimenti varrebbe la pena cominciare a pensare di far senza. Oltretutto questo strumento non ha alcuna possibilità di essere, per le stesse ragioni appena espresse, nemmeno un "ponte" in attesa di un vaccino che ci restituisca alla normalità.

Non vorremmo, dunque, che con l'espressione "Netflix della cultura" si enfatizzi troppo quello che in realtà potrebbe al più essere un utile strumento di diffusione di contenuti da erogare per chi non può permetterselo o vive in luoghi e città prive di sale o teatri. Cioè svolgere né più né meno il ruolo di servizio pubblico generalmente affidato alla Rai.

E con questo siamo al punto. Difatti la nostra "Netflix della cultura" esiste già e si chiama Rai. La nostra azienda televisiva e radiofonica di Stato, per chi la conosce o ci ha lavorato, è da sempre per potenzialità tecnologiche, materiali d'archivi, storia, competenze, la più grande azienda culturale del nostro Paese. A cui è già affidata la responsabilità di svolgere il servizio pubblico che la piattaforma a cui sta lavorando il ministro dovrebbe usurpargli. Ruolo che dovrebbe svolgere molto meglio, più intensamente e con maggior creatività e trasparenza di quanto non abbia fatto negli ultimi anni, ma che difatti è suo. E lo è tal punto che noi cittadini siamo già "abbonati" a questa straordinaria piattaforma, non a caso le paghiamo un canone in bolletta più o meno pari, se non più alto, di quello che eroghiamo liberamente a Netflix.

Dovremmo approfittare di questa crisi non per vagheggiare, sotto nomi pomposi e alla moda, strumenti – mi sia consentito – già polverosi nell'essere concepiti come semplici scatole di contenuti tradizionali, ma per fare della Rai la più moderna, innovativa, digitale, azienda produttrice e di diffusione della cultura e dell'intrattenimento in Italia. Che sempre sarà per essere vissuta insieme, dal vivo, da qualche parte.

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Scrittore, sceneggiatore, giornalista. Nato a Napoli nel 1979. Il suo ultimo romanzo è "Le creature" (Rizzoli). Collabora con diverse riviste e quotidiani, è redattore della trasmissione Zazà su Rai Radio 3.
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