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Covid 19

Il Coronavirus mette il mondo dello spettacolo in quarantena: così la cultura va in crisi

Da quando il Coronavirus ha colpito il Paese, i provvedimenti cautelativi attuati in gran parte del nord Italia, hanno determinato la chiusura di teatri, cinema, nonché dei locali alle 18, con l’annullamento di spettacoli e concerti. E se per molte categorie significa smart working, malattia, riduzione delle ore, per i lavoratori dello spettacolo invece vuol dire perdita del lavoro. Ma come diceva Bertolt Brecht “Prima vien la pancia piena e poi viene la morale…”.
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Teatro "Giovanni Verga" di Catania
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Da sempre il viola in teatro “porta male”. Questo perché nel medioevo – quando il teatro era fatto da commedianti girovaghi, che si esibivano nelle locande in cambio di vitto e alloggio o nelle piazze, dove alla fine dell’esibizione raccoglievano monete o “pagamenti” di vario genere – durante la Quaresima, il Vescovo ordinava la sospensione totale di ogni tipo di rappresentazione, e così musicisti e teatranti per 40 giorni non avevano la certezza di poter mangiare, bere e dormire regolarmente. Quei 40 giorni in cui il viola, colore dei paramenti sacri usati per la Quaresima, era dovunque. Ed ecco perché è ritenuto un colore non gradito in teatro, una tradizione più che una superstizione vera e propria. Sono trascorsi secoli ma la condizione dell’artista che si esibisce dal vivo in Italia resta la medesima: se non lavori, non mangi.

Perché, purtroppo, nel nostro paese vi sono pochissime tutele per i lavoratori dello spettacolo e più in generale per gli artisti, i quali, fra partite iva, autonomi, prestazioni occasionali e assunti (sempre e comunque stagionali), mancano di un quadro professionale e "burocratico" di riferimento. Ed è per questo che seppur sia uno dei lavori più belli del mondo, è anche un mestiere difficile, spesso oggetto di grandi sacrifici e rinunce, e quando mi chiedono “ah sei in ferie?” la mia risposta è sempre la stessa “no, in realtà sono disoccupato, perché le ferie te le pagano…" Ed è per questo (oltre che per un'antica, sacra etica del palco) che "the show must go on", che si cerca di andare in scena sempre e comunque, anche se intorno il mondo sta crollando.

E in questi giorni in cui sembra che il mondo stia crollando davvero, perlomeno in gran parte del nord Italia, i “teatranti”, commedianti, musicanti, tecnici o più in generale lavoratori dello spettacolo, sono messi al bando: da quando l'epidemia di Coronavirus ha colpito il Paese, i conseguenti provvedimenti cautelativi, hanno determinato la chiusura di teatri, cinema, nonché dei locali dopo le h18, con l’ovvio annullamento di spettacoli e concerti, in tutte le regioni colpite maggiormente dal virus. E se per molte categorie ha significato lo smart working, la malattia, la riduzione delle ore di lavoro (non per tutte ovviamente), per noi invece vuol dire perdita di lavoro e di danaro.

Coronavirus: lo stato di crisi del mondo dello spettacolo

"Abbiamo elaborato una stima, basata su dati Siae, che indica una perdita solo in questa settimana di 10,1 milioni di euro al botteghino e la cancellazione di 7.400 spettacoli". Sono i dati sulle conseguenze dell'emergenza Covid-19, forniti all'AGI da Filippo Fonsatti, direttore del Teatro Stabile di Torino e presidente di Federvivo, la federazione che all'interno dell'Agis (Associazione Generale Italiana dello Spettacolo) racchiude tutti i comparti dello spettacolo dal vivo. Tutto ciò senza contare i saggi, le scuole di teatro, musica, ballo etc etc i concerti, i locali e tutte le attività collaterali. Per questo motivo, i lavoratori dello spettacolo tramite le proprie rappresentanze, fra le quali C.Re.S.Co (Coordinamento delle Realtà della Scena Contemporanea), hanno chiesto al ministro Dario Franceschini che si dichiari lo "stato di crisi" per il mondo dello spettacolo (come si può leggere qui).

La situazione è molto più ampia rispetto ai confini geografici del Nord. Perchè in primo luogo, molti dei teatri "chiusi" delle regioni interessate ospitano in questo periodo compagnie provenienti dal centro e dal sud e poi tutti i settori educational delle grandi istituzioni, dalla Scala in giù, ed anche e soprattutto tutti i soggetti, come compagnie, centri di produzione, si vedono sostanzialmente azzerare l'attività per un periodo ancora più lungo di quello che ha colpito gli altri teatri, a causa dello stop previsto dai decreti legislativi a gite scolastiche e visite didattiche fino all'8 o al 15 marzo. "La situazione è un bollettino di guerra – continua il presidente di Federvivo come riportato qui ci sarà comunque una ricaduta negativa sul settore "anche in assenza di una proroga". Un intervento pubblico è auspicabile. Occorrerà immediatamente, dopo la cessazione delle ordinanze, ripartire con una campagna di sensibilizzazione per rassicurare l'opinione pubblica in merito al fatto che i teatri e i luoghi di cultura in generale non presentino alcun rischio per gli spettatori. La ricaduta è sicuramente grave sulle sulle imprese e sulle compagnie, ma è gravissima sui lavoratori. Non essendoci in questo comparto la cassa integrazione, rischiamo veramente che i costi più alti vengano pagati dagli artisti e dai tecnici impegnati nelle produzioni."

Intervento pubblico per il mondo dello spettacolo

È altresì vero però, che in un momento di crisi come questo, credo sia necessario non fomentare polemiche sterili, anche perché il mondo è già saturo di opinionisti e virologi laureati sui social, ma resto comunque convinto che questa situazione sia un indicatore di come la cultura, il teatro e le arti dello spettacolo siano tenute in considerazione in Italia: sacrificabili in ogni situazione. "Io non discuto – come dice Marco Maria Linzi, direttore artistico del Teatro della Contraddizione di Milano – l'opportunità di chiudere o meno i teatri, ma osservo con perplessità che la chiusura degli spazi culturali arrivi prima dei ristoranti e dei centri commerciali, e simbolicamente la dice lunga su quanto siano importanti per lo Stato, l'arte e la cultura […] come se la stessa non fosse anche un lavoro, da tutelare.” E in mezzo a questa diatriba, non bisogna dimenticare che in questo momento, le lavoratrici e i lavoratori dello spettacolo "non mangiano". Ma come diceva Bertolt BrechtPrima vien la pancia piena e poi viene la morale…”

La cultura in Italia al tempo del Coronavirus

Sarebbe quindi necessario, risolta la crisi, aprire finalmente un dibattito serio sulla situazione della cultura in Italia, partendo dalle basi, perché io ho visto cose che voi umani non potete nemmeno immaginare. Va riconsiderata l’idea stessa della cultura in questo paese, come dell’arte dello spettacolo, va riconosciuto e insegnato che è un lavoro che necessita di studio ed esercizio (e non solo di uno smartphone con il quale autofotografarsi), e forse finalmente un giorno finirà la pessima abitudine di domandare ad un artista “e quindi, quanto guadagni tu? quanto ti danno per una serata? quanto hai preso per fare sta cosa?” frase che non porresti mai ad un idraulico o un ingegnere, ma che ti sembra legittimo porre a chi "non lavora veramente", perché dopotutto è solo una curiosità.

E in un momento storico in cui la socialità è dettata per gran parte dai social, cloaca di rabbiosi senza rabbia, non dovremmo mai dimenticare che spettacoli, monologhi, concerti non sono eventi accessori, inutili e rinunciabili ma pane e nutrimento per l’anima: musica e teatro sono punti fermi della società da sempre. Dal Medioevo e da tempi più remoti ancora. Quindi per favore non chiedeteci più “ma di lavoro poi tu cosa fai?” perché son più di 2000 anni che di lavoro accompagniamo le vostre serate, anche quando il mondo sta crollando. Grazie.

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