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Cinque passi di Dante che hanno cambiato la storia

Per i Settecentocinquant’anni della sua nascita, un bel modo per celebrare Dante, il più grande poeta di tutti tempi, è tornare alla sua poesia e capire come ha riplasmato storia, estetica e cultura.
A cura di Luca Marangolo
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Nella foto: La Divina Commedia illumina Firenze di Michelino
Nella foto: La Divina Commedia illumina Firenze di Michelino

In che modo i libri cambiano la storia?  Non ce ne rendiamo conto ma i mutamenti storici sono il nostro pane quotidiano: li compiamo e li portiamo a termine con il nostro comportamento, vivendo la nostra vita del tutto privi di quella che Hegel chiamava autocoscienza (Selbstbewustssein), ovvero la capacità di vedere la storia dell’uomo dall’alto, come fuori da noi stessi. Esistono però delle cose che sono in grado di amplificare enormemente la nostra capacità di cambiare la storia, e sono una cassa di risonanza fortissima della coscienza finita di noi singoli, rendendola più grande più potente, espandendone la percezione e la capacità di azione al di là dei secoli, al di là del tempo; permettono di lasciare tracce della vita di un singolo molto oltre della sua linea biografica.

Queste cose sono i libri (ma anche i dipinti e le sculture: le opere d’arte in generale) e il libro di cui parliamo è la Divina Commedia di Dante, figlio di un cambiavalute fiorentino, iscritto all’ordine degli speziali, che lo scrisse fra il 1303 e il 1319, stravolgendo e rifondando la cultura, l’estetica del suo tempo in un modo molto più profondo di quanto – solo per fare un esempio- non abbia fatto il computer per noi nativi digitali. Quest'anno ricorrono i 750 anni della sua nascita, celebriamone così la grandezza.

Perché ha cambiato la storia? E in che modo? Ci sono molti modi per spiegarlo, quello che abbiamo scelto è sicuramente il più piacevole; è rarefatto ma in una certa misura li racchiude un po’ tutti: la Divina Commedia ha cambiato la storia perché ha cambiato il modo di percepire la realtà, di descriverla, di trasformarla in simbolo. Ho selezionato cinque passi che, con l’aiuto di un grande riferimento critico come Auerbach, possono aiutarci a capirlo.

1. Farinata

Vorrei partire proprio dal problema di Erich Auerbach. Auerbach per primo intuì che la grandezza dell’arte di Dante fu quella di fondere realtà e metafora, la poesia di Dante era in grado al contempo di raccontare le vicende, molto concrete, psicologiche e terrene degli esseri umani e racchiudere queste parabole narrative all’interno di un orizzonte di senso infinitamente più ampio: è quello che lui chiamava realismo figurale. Facciamo l’esempio più famoso.

O Tosco che per la città del foco
vivo t'en vai così parlando onesto
piacciati di restare in questo loco.

La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patria natio
a la qual forse fui troppo molesto."

Subitamente questo suono uscio
d'una de l'arche; però m'accostai
un poco piu al duca mio.

Ed el mi disse: "Voltigi! Che fai?
Vedi là Farinata che s'è dritto
dalla cintola in su tutto ‘l vedrai"

Io avea già il mio viso nel suo fitto;
ed el s'ergea col petto e con la fronte
com'avesse l'inferno a gran dispitto.

Per parlare di questa capacità di fondere reale e universale, umano e teologico, Auerbach non sceglie il più sublime dei passi della Commedia, sceglie l’introduzione di un personaggio fra i tanti aristocratici (un epicureo) nell’Inferno. Perché non sceglie passi sulle sfere celesti? Perché non sceglie la visione di Dio, quando Dante, alla fine del suo viaggio, vede al posto di Dio il volto dell’uomo stesso? Perché ad Auerbach interessa dimostrare che questa singolare caratteristica della poesia di Dante, nel suo essere frutto della cultura cristiana, con tutti i suoi miti e le sue immaginazioni, è anche una conquista dell’umanità intera: in ogni frase, in ogni riferimento stilistico di questo passo del canto decimo Dante arriva a descrivere un personaggio con una umanità e con una ricchezza di legami sintattici e strutturali che non era mai esistita prima e lo fa proprio perché colloca la parabola dell’esistenza di Farinata all’interno dello schema di senso più vasto del suo poema: la cosa da notare è dunque che tutto il millenario bagaglio culturale, sociale estetico metaforico della cristianità diventa in Dante prima di tutto uno strumento per rifondare il modo di descrivere i personaggi, un modo per dare una nuova plasticità e concretezza alla realtà, associando in un solo sintagma descrizione e cultura, sistema  retorico-stilistico e  sistema culturale. Essendo sintesi estrema di questo mondo, lo stile di Dante, in qualche misura, lo dissolve, e lo apre alla modernità donandole un nuovo modo di concepire la letteratura e la realtà da sempre paragonata all’invenzione della plasticità negli affreschi di Giotto.

 2.L'ombra d'Argo

La forma universal di questo nodo
credo ch'i' vidi, perché più di largo,
dicendo questo, mi sento ch'i' godo.

Un punto solo m'è maggior letargo
che venticinque secoli a la ‘mpresa
che fé Nettuno ammirar l'ombra d'Argo.

Qui Dante è nel punto più alto del Paradiso, è prossimo a vedere Dio. La metafora che usa nella seconda terzina per descrivere quest’esperienza ha fatto scervellare centinaia di studiosi per la sua incredibile polisemicità. Nel punto più alto, più sublime della sua opera Dante cita un episodio mitico: inventa un’immagine unica; immaginate Poseidone, il dio del mare, seduto sul fondo degli abissi che inclina in alto la testa e vede l’ombra di una nave (Argo era la nave di Giasone, capo degli argonauti, appunto) in controluce, immersa nei raggi solari che si riflettono sulla superficie dell’acqua. Il Dio visto da Dante, vuol forse comunicarci il poeta, non è solo il compiersi di un itinerario mistico, non è solo l’architrave di tutta quest’immensa costruzione di senso che è il mondo della Commedia, è anche la possibilità dell’uomo, del poeta, di dissolvere attraverso l’arte e l’estetica venticinque secoli di storia tecnica, metafisica e culturale. In questo passo Dante ci sta comunicando che, bene o male, è consapevole della portata secolare del suo poema e del fatto che sta donando al mondo un nuovo modo di vedere la realtà.

3. Paolo e Francesca

Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m'offende.

Amor, ch'a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona.

Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte.

Questi versi sono talmente famosi che la loro notorietà potrebbe quasi svilirli, se non provassimo a grattare un poco dietro la superficie e capirne il valore. E lo ricordava Segre poco prima di sparire: è la prima volta che l’amore viene rappresentato come passione. L’amore nella cultura e nella poesia occidentale era sempre stato un motivo altamente codificato attraverso il quale poter attivare dei rituali: l’amore cortese, ad esempio (si tratta di pochi decenni prima della Commedia) era investito di una forte carica socio-simbolica, era talmente rarefatto che è talvolta oscuro alla lettura d'oggi (o come dicevano i poeti di allora Trobar Clus, "chiuso", oscuro perché codificato), qui invece diventa d’improvviso oggetto di indagine drammaturgica, strumento per descrivere l’umano nelle sue intime contraddizioni culturali e sociali. Nel canto di Paolo e Francesca scompare di improvviso un secolare lavoro di codificazione della poesia erotica, e ciò sempre grazie alla capacità della poesia di Dante (lo abbiamo visto fin ora) di essere un incredibile catalizzatore di tutte le contraddizioni sociali culturali ed etiche del Medioevo, come tutti i grandi poeti oltre il suo tempo proprio perché radicato nel suo tempo, in grado di coglierne le criticità.

4.Ulisse

« Non vogliate negar l'esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza. »(…)

« Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto dalla luna,
poi che ‘ntrati eravam nell'alto passo,

quando n'apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non ne avea alcuna.

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché della nova terra un turbo nacque,
e percosse del legno il primo canto.

Tre volte il fe' girar con tutte l'acque:
alla quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com'altrui piacque,

infin che ‘l mar fu sopra noi richiuso.»

Prima abbiamo citato il passo di Nettuno e Argo. In realtà tutto il poema dantesco è pervaso dal tema retoricamente classico della nave. La nave è la coscienza, la nave è l’involucro che ci protegge dalla potenza dell’esperienza, è l’ingegno che, nell’ascensione verso il mondo ultraterreno, ci permette di codificare, esplorare e capire molti dei segnali sparsi nella strada verso la trascendenza. Ma la nave di Ulisse, per Dante, è destinata a naufragare. Ciò non perché il poeta non creda nelle possibilità razionali dell’uomo: il discorso di Dante è sempre costantemente in bilico fra la questione della finitudine umana, della sua limitatezza intellettuale, e la necessità di non rinunciare all’indagine. In questo, ancora una volta, Dante è estremamente moderno e medievale al contempo, ed ancora una volta, usa la sua poesia per dissolvere le contraddizioni culturali del suo tempo e ridonare un senso -nuovo- al problema del rapporto con la trascendenza. È in questo modo che bisogna vedere la forma, innovativa, con cui tratta il tema di Ulisse, descrivendolo nella sua umanità e, proprio grazie a questa ritrovata concretezza, in grado di  vedere il problema dei limiti umani in un modo diverso: dal punto di vista dell’uomo, non da quello di Dio.

5.Il finale del poema

Ne la profonda e chiara sussistenza
de l'alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d'una contenenza;

e l'un da l'altro come iri da iri
parea reflesso, e ‘l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.

Oh quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto! e questo, a quel ch'i' vidi,
è tanto, che non basta a dicer `poco'.

O luce etterna che sola in te sidi,
sola t'intendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi!

Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,

dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
per che ‘l mio viso in lei tutto era messo.

Qual è ‘l geomètra che tutto s'affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond' elli indige,

tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l'imago al cerchio e come vi s'indova;

ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.

Siamo arrivati alla fine: qui Dante sfodera tutte le più mirabili capacità retoriche. Da notare i verbi parasintetici: sono dei verbi in grado di sintetizzare concetti e azioni in un unico sintagma: "s’indova",  altrove dice "si squaderna", "indige"; qui il poeta vuole in ogni modo comunicare una sublime idea di sintesi, una sintesi cosmologica, quella grande sintesi culturale che è stata tutta la sua attività poetica, e non si dovrebbe smettere mai di battere su questo punto: ecco perché, giunto alla sommità di tutti i cieli, Dante alla fine del suo viaggio vede il volto dell’uomo nel volto di Dio (“mi parve pinta de la nostra effige”), questa visione non è altro che l’apice di un concatenarsi sempre più sublime di una serie di volti: il volto di Paolo e Francesca, il volto di Ulisse, il volto di Farinata, e tanti altri volti e incontri. Figure, direbbe Auerbach, racchiuse in un nuovo ordine in cui eternità e umile umanità si compenetrano.

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