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Che cosa vuol dire il termine ‘resilienza’ e perché va di moda

Certi significati di questo termine stanno vivendo anni di grande popolarità, su tutti i media: è senz’altro un termine di moda. Partendo da quali sono i suoi significati che troviamo sui dizionari e osservando meglio quello psicologico, proviamo a fare qualche ipotesi sul perché di questo fenomeno.
A cura di Giorgio Moretti
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Facendo una rapida ricerca si può notare che, grossomodo, fino al 2014 il termine ‘resilienza' destava un interesse modesto, un interesse specialistico, per quanto iniziasse già a frequentare i media. Invece, dal 2014 in poi, e progressivamente di anno in anno, il concetto di resilienza è diventato sempre più coinvolgente, sempre più usato, sempre più ricercato. Il fenomeno non stupisce, le parole sono scorci di pensiero, e anche i pensieri possono attraversare periodi di maggiore o minor successo.

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Il termine ‘resilienza', così come l'aggettivo ‘resiliente', giravano già dal Settecento, in Italia, e i loro primi significati, recuperati dal latino resiliens, participio passato di resilire (‘saltare indietro'), si avvicinavano alla qualità di ciò che rimbalza, di ciò che reagisce. Questi significati sono stati raccolti in fisica, in particolare dal lessico delle scienze dei materiali, che hanno fatto di questo ‘saltare indietro' la capacità di un materiale di resistere a urti assorbendone l'energia attraverso una defomazione elastica (banalmente, si può pensare al tappeto elastico), poi restituendola e tornando alle condizioni originali.

Una caratteristica del genere è suggestiva, fascinosa, e immediata: un suo uso figurato è alla portata di tutti. Ma non si era affermato mai, prima dei giorni nostri (almeno in italiano, certi suoi omologhi in Europa sono andati più forte, e forse proprio questo successo internazionale ne ha favorito un'affermazione da noi nuova). Così, accanto ai materiali da costruzione resilienti e ai tessuti resilienti che si tirano e non si sformano né strappano, si è seduta la resilienza quale capacità psicologica di reagire a un trauma. L'urto morale si sente eccome, ci impressiona, ci deforma, ma con spirito e adattabilità la persona resiliente ne fa (vedi l'esempio) trampolino per riprendersi come e meglio di prima. Facciamo l'esempio che ci colpisce ed emoziona forse più di ogni altro: le grandi storie di atleti paralimpici. All'ispirazione che l'atleta sempre ci accende sulle virtù di costanza, caparbietà, entusiasmo, passione e via e via, aggiungono l'esempio della resilienza. Per dirlo in una parola, la resilienza è Zanardi.

Ci sono analisi molto approfondite, capillari e circostanziate sul modo e sui percorsi che hanno portato il termine ‘resilienza' ad affermarsi. Ma c'è una riflessione, forse poco accademica ma sicuramente poco battuta, che possiamo avanzare circa questo successo. Non accade spesso che nel nostro panorama linguistico si accenda il nome di una nuova virtù, fresca, pulita, di zecca. Si parla da millenni delle solite virtù, anzi i nomi di tante virtù sono diventati obsoleti e andati perduti (chi parla più di eutrapelia o di parresia? Eppure sono grandi virtù). Ma anche le virtù ricrescono nuove, e oggi sui social network, sui siti più disparati e a stormo su ogni media si parla di resilienza perché perdiana, è una parola importante, perché vogliamo essere resilienti: è stato dato un nuovo nome a una virtù, a una virtù che spira con forza, tutta riscatto, tutta rilancio, una virtù che vogliamo per noi e per gli altri, ed è un nome che è piaciuto. Non si può dire se e in che misura il successo, la popolarità di questa parola perdurerà; ma la resilienza è cambiata per sempre.

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Nato nel 1989, fiorentino. Giurista e scrittore gioviale. Co-fondatore del sito “Una parola al giorno”, dal 2010 faccio divulgazione linguistica online. Con Edoardo Lombardi Vallauri ho pubblicato il libro “Parole di giornata” (Il Mulino, 2015).
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