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Btp decennali: tassi sotto il 2%, non stappate lo spumante

In borsa i Btp italiani continuano a correre col rendimento sui titoli a 10 anni che scivola persino sotto il 2% annuo lordo (l’1,5% netto). A fregarsi le mani è solo il debitore, ossia il Tesoro italiano, mentre lavoratori e pensionati rischiano grosso…
A cura di Luca Spoldi
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Hip hip hip, hurrà. Il rendimento dei Buoni del tesoro poliennali (Btp) a 10 anni è sceso sotto il 2%, per la precisione toccando in giornata un minimo dell’1,98% lordo, corrispondente ad un 1,49% netto, prima di risalire lievemente al 2,05% (1,51% lordo) con prezzi attorno a 127,17 (il titolo, che ha una cedola nominale annua, pagata in ragione di un 2,5% lordo ogni semestre, costa cioè 127,17 euro per ogni 100 euro di valore nominale). Se il Tesoro può sorridere, gli investitori molto meno. E’ vero, infatti, che domani la Bce dovrebbe finalmente annunciare il via del programma di acquisto di covered bond per 200 miliardi di euro che andrà come previsto ad affiancarsi all’analogo programma di acquisto di Abs (titoli legati a crediti cartolarizzati) ed è vero pure che se non domani nei prossimi due-tre mesi Mario Draghi potrebbe annunciare che l’istituto centrale europeo è pronto ad acquistare anche titoli di stato, pur di far tornare l’attivo di bilancio alle dimensioni di fine 2012 (ossia sui mille miliardi di euro), cosa che sosterrà le quotazioni dei titoli di stato, specie di Italia e Spagna, ancora per molti mesi.

Ma più a lungo i tassi si manterranno su livelli prossimi allo zero o comunque molto bassi, più in assenza di una ripresa che consenta di veder ripartire investimenti, consumi e salari (o un deciso riassorbimento della disoccupazione), più si “brucerà” crescita potenziale. Può sembrare un discorso teorico, invece ha risvolti estremamente pratici su due fronti, quello del lavoro e quello delle pensioni. Quanto al primo, è evidente che, soprattutto in un mercato del lavoro come quello italiano, ancora fortemente rigido e segmentato (un aspetto quest’ultimo che il “Jobs Act” non migliora in alcun modo, anzi), chi perde il lavoro o finisce in cassa integrazione e non riesce a riciclarsi quanto prima rischia, a fronte di una crisi della domanda che si sta trascinando ormai da quattro anni e potrebbe durare ancora a lungo visto che si vuole essere “virtuosi” a tutti i costi (ossia scaricando i costi sui soggetti più deboli, per quanto giustificando il tutto col “nobile” intento di rendere maggiormente competitivo il lavoro italiano, che in realtà è reso poco competitivo principalmente dall’eccessivo carico fiscale), di ritrovarsi rapidamente “obsoleto”.

Servirebbero risorse importati da attivare per consentire a chi ha perso il lavoro di poter apprendere nuove competenze e provare ad avviare una nuova attività come lavoratore dipendente o indipendente che sia, ma con gli attuali chiari di luna non è detto ci siano. Così i tassi “sotto zero” della Bce (e sotto il 2% sui titoli di stato italiani) più che essere una cura rischiano di risultare, al più, un termometro, un sintomo della malattia attraversata dall’Italia. Ma c’è un secondo e più insidioso aspetto da considerare. Soprattutto se passerà l’idea, al momento inserita nella disegno di Legge di Stabilità all’esame del Parlamento, di aumentare la tassazione sul risparmio previdenziale (fondi pensione e casse professionali, ma anche assicurazioni sulla vita e gestioni patrimoniali) avere a lungo tassi compressi tra lo zero e l’1,5% netto annuo o poco più significa bruciare miliardi di euro di future rivalutazioni. E ritrovarsi tra 15 o 20 anni ad avere milioni di pensionati che scopriranno che ad una gestione pubblica che rappresenterà, al meglio, il 40% dell’ultimo stipendio non si potrà sommare che qualche decina o centinaia di euro al mese, pari a poco più che il montante dei contributi versati da ciascun lavoratore nei propri fondi pensione individuali o di categoria.

E’ pur vero che secondo la Covip nel 2013 i fondi pensione negoziali hanno reso in media il 5,4%, l’8,1% è stato il rendimento medio dei fondi pensione aperti, mentre i piani individuali pensionistici (Pip) hanno reso mediamente il 12,2% (nel caso dei prodotti di ramo III) ovvero il 3,6% (le gestioni separate di ramo I), molto più del Tfr (che mediamente si è rivalutato lo scorso anno dell’1,7%) e pure più del rendimento medio dei titoli di Stato a fine 2013 (pari al 3,045% secondo Banca d’Italia). Ma l’ulteriore frenata dei rendimenti non faciliterà la vita ai gestori, che dovranno o iniziare a puntare su strumenti maggiormente “rischiosi” o rassegnarsi ad accettare rendimenti inferiori anche a fronte di un’eventuale compressione dei costi (l’indicatore sintetico dei costi, Isc, è rimasto stabile nel 2013 rispetto all’anno precedente ed è risultato pari allo 0,9% per periodi di partecipazione di 35 anni a fondi negoziali, ovvero all’1,1% per i fondi pensione aperti e all’1,5% per i Pip).

Riassumendo: tassi in ulteriore compressione sui titoli di stato faranno bene al debitore (lo stato) ed evitano probabilmente nuove (o peggiori) spremiture fiscali agli italiani. Ma sono indice di un perdurare di una crisi che l’intervento della Bce non può da sola sbloccare. Di fronte a una classe politica impegnata massimamente a tutelare i propri interessi privati, aziendali o di casta e solo residualmente a fare qualche riforma, la cui efficacia resta al momento tutta da verificare (dovendosi attendere decreti delegati che potrebbero stravolgerne la portata, in meglio o in peggio), è difficile scorgere qualche motivo d’ottimismo che vada al di là di una performance meramente borsistica.

C’è quindi da sperare che l’anno che verrà, una volta sbloccata la trattativa per la nuova legge elettorale e per l'elezione del nuovo capo dello Stato, porti qualche novità anche e soprattutto sul fronte del credito (le banche italiane stanno migliorando, ha ricordato oggi Fitch, ma restano molto deboli e poco redditizie rispetto alle concorrenti visto lo stato di salute precaria dell’economia domestica e la limitata presenza su mercati esteri, l’equity crowdfunding e i minibond sono strumenti interessanti ma soffrono ancora di dimensioni lillipuziane e di non pochi limiti operativi), della burocrazia (i tempi per l’approvazione di nuovi investimenti restano troppo lunghi, i livelli di autorità coinvolte nei vari processi ancora troppo numerosi) e della fiscalità (la vicenda degli sgravi Irap è vergognosa, la dichiarazione Irpef “precompilata” per i lavoratori dipendenti appare una mera operazione di facciata), per non parlare di fattori come la corruzione la concorrenza sleale e il malaffare in genere. Altrimenti avremo buttato un anno per nulla, se non per meglio tutelare questa o quella "casta", e rischieremmo di farne passare altri vanamente. Ma questo chi mi legge lo sapeva già, vero?

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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