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Mario, 93 anni: “Sopravvissuto a Dachau, vi racconto la mia storia. È la pura verità”

“Quando siamo arrivati uno ha detto: sono venuti a prenderci in pigiama. Non sapevamo neanche cosa fossero i lager” racconta Mario Candotto, deportato nel 1944 e rimasto nel campo di concentramento per un anno. “Ci davano continuamente il tormento e si rischiavano sempre le botte -racconta-. Ti portavano a ragionare solo con lo stomaco, solo per sopravvivenza”
A cura di Beppe Facchini
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“Non hai nessun diritto ma solo doveri: tu qui sei un numero”. E il suo era il 69.610. “Neunundsechzigtausendsechshundert stirbt: dovevo imparare a dirlo in tedesco”. Impossibile dimenticarlo: Mario Candotto, classe 1926, infatti se lo ricorda ancora. “Ti entra dentro” assicura. Mario è uno dei pochi ancora in vita sopravvissuti all’inferno di Dachau, il campo di concentramento nazista dov’è rimasto a lottare per non soccombere un anno intero. Lo avevano internato insieme al padre nel 1944, dopo che due spie fecero arrestare e deportare 70 persone del suo paesino al confine con l’ex Jugoslavia, Ronchi dei Legionari, in provincia di Gorizia.

Proprio a casa sua, durante la Resistenza, si incontravano alcuni partigiani pronti a combattere sui monti. Con loro c’erano i suoi due fratelli e lo stesso Mario, il quale, giovanissimo, dava una mano ai combattenti come staffetta. La sua storia rappresenta una preziosissima testimonianza per non dimenticare cos’erano riusciti a progettare i tedeschi per arrivare a quella che il Fuhrer, Adolf Hitler, chiamava “soluzione finale”, cioè la strategia per eliminare fisicamente ebrei ma anche zingari, omosessuali, testimoni di Geova e oppositori politici.

“Erano molto organizzati” ricorda Mario, rimasto a Dachau un anno esatto. La sua famiglia, dopo l’arresto, fu divisa, perché le donne furono deportate ad Auschwitz, da dove tornarono solo le sorelle. I fratelli maggiori, invece, sono morti come partigiani: uno durante i primi scontri partigiani sul ponte di Gorizia nel settembre del 1943, l’altro contro un gruppo di Cetnici allo sbando un mese prima della fine del conflitto mondiale). I genitori, ormai anziani, invece perirono in quell’infermo: la fortuna di Mario fu anche che lavorò al chiuso nella fabbrica della Bmw. “Lavoravamo pro-guerra, però almeno lì, davanti al mio tornio –ricorda- mi sentivo un uomo”. Nel campo, invece, era impossibile. “Ti tormentavano di continuo e si rischiavano sempre le botte”.

Cibo razionato, gente che arrivava a pesare meno di trenta chili, persone morte di stenti, pidocchi: “Piano piano ci hanno portato al punto che non si ragionava più” racconta con lucidità il 93enne sopravvissuto. “Si ragionava solo con lo stomaco, solo per sopravvivenza, negando anche amicizie e parentele”.

Devo vivere, devo tornare a casa” non faceva che ripetersi Mario, riuscendo così a farcela con l’arrivo degli alleati. “Al nostro ritorno però nessuno ci credeva, ne parlavamo solo fra noi deportati” spiega Candotto, il quale, dicendosi "preoccupato" dall'avanzare delle destre non solo in Italia, non ha invece mai smesso di raccontare la sua storia. Lo fa durante i convegni, nelle scuole e durante le annuali commemorazioni. E lo ha fatto anche stavolta. “È la pura verità”.

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