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La strage di Gioia Tauro e i segreti d’Italia scoperti da cinque giovani anarchici

Un attentato dinamitardo, una rivolta che infuoca un’intera regione e cinque giovani che hanno scoperto segreti che possono “far tremare l’Italia”, morti in un misterioso incidente stradale. Questa la storia della Strage di Gioia Tauro.
A cura di Angela Marino
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Mercoledì, 22 luglio 1970. Sul direttissimo Freccia del Sud, Palermo -Torino, il treno del Sole che collega le due anime della penisola, ci sono circa 200 persone. Lavoratori pendolari che tornano su dopo un soggiorno in famiglia, un gruppo di pellegrini diretto a Lourdes, viaggiatori occasionali, tutti sono stipati in quei vagoni roventi del sole di luglio. Il viaggio è interminabile e con quei sobbalzi continui non si riesce neanche a dormire. Poi il treno subisce un sussulto più forte degli altri, molto più forte. Qualcosa non va. Il macchinista aziona il meccanismo di frenata di emergenza e si lancia dal locomotore. Le prime sei carrozze del treno – che correva a 100 chilometri orari –  si arrestano schiacciandosi. La sesta deraglia, tirandosi dietro tutte le altre 12, il treno si spezza in due, due carrozze si rovesciano sulla massicciata. Alle 17 e 10, il Treno del Sole finisce il suo viaggio a Gioia Tauro, in provincia di Reggio Calabria, con 6 morti e 77 feriti.

Ore 17:08

Nelle case circostanti si sente la terra tremare, alcuni credono che sia il terremoto. Da lontano, guardando verso la stazione si vedono fiammate rosse alzarsi dalle carrozze. Dentro, c'è un cimitero di corpi straziati. I vigili del fuoco tentano di estrarli con la fiamma ossidrica, la scena è quella di un disastro. Si pensa subito a una disgrazia, un errore umano o una fatale avaria. Quella, però, è una città che dista pochi chilometri da Reggio Calabria, dove da sette giorni i cittadini insorgono contro la decisione di fare di Catanzaro e non Reggio il capoluogo di regione. Una scelta combattuta dalla popolazione che aveva fatto di Reggio un campo di battaglia, con barricate che chiudevano l'accesso alle strade, presidi e episodi di guerriglia urbana. Il 15 luglio ci scappa anche il morto: è Bruno Labate, iscritto alla CGL, muore sotto una carica dalla polizia. Al suo funerale la folla insorge di nuovo davanti alla Questura assaltano il palazzo, la quinta sezione della Mobile viene data alle fiamme. Il sindaco Battaglia e il gruppo della DC, che inizialmente avevano sostenuto e animato l'insurrezione, se ne dissociano e nasce il Comitato d'azione per Reggio Capoluogo, guidato da tre missini, Natino Aloi, Renato Meduri e Ciccio Franco, consigliere comunale in quota MSI e sindacalista Cisnal dei ferrovieri, che conia il claim ‘Boia chi molla'.

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 ‘Gli anarchici della baracca'

In uno scenario simile, dopo i fatti di piazza Fontana, l'ipotesi che il deragliamento del treno del Sole fosse frutto di un'operazione di deliberato sabotaggio da parte dei rivoltosi di Reggio. Lo pensano i magistrati della Procura; lo sospettano i reggini che hanno alzato le barricate; i giovani anarchici, paladini della controinformazione, i cosiddetti Capelloni, tentano di scoprirlo. Tuttavia la parola ‘attentato' non viene pronunciata in nessuna sede, neanche in quella di indagine della Polfer. Il capostazione e tre ferrovieri vengono indagati e subito viene archiviata la loro posizione. Anche se la perizia dei tecnici considera anche l’attentato dinamitardo, l’inchiesta si chiude. Solo quella della polizia, però. C'è un gruppo di attivisti reggini, noto come  ‘Gli anarchici della baracca', dal posto pittoresco e fatiscente in cui, studiavano e discutevano e abitavano, che riguardo alla strage guarda più lontano della polizia. Gianni Aricò, Angelo Casile, Franco Scordo, Luigi Lo Celso e Annalise Borth, peraltro testimoni a favore di Pietro Valpreda nell'inchiesta su piazza Fontana, hanno osservato da vicino la rivolta di Reggio documentando, con le macchine fotografiche, la presenza nelle barricate di neofascisti di Ordine nuovo e Avanguardia nazionale.

"Abbiamo scoperto cose che faranno tremare l'Italia"

Nella baracca avevano raccolto del materiale sul disastro della Freccia del Sud, documenti delicati che era il caso di mostrare a un amico avvocato, Edoardo Di Giovanni, autore della controinchiesta sull'attentato di Milano. Li aspettava a Roma, dove i ragazzi erano diretti nella loro Mini minor carica di fascicoli, il 26 settembre del 1970, dove, sull'autostrada tra Ferentino e Frosinone, a 58 chilometri da Roma, si schiantano contro un camion parcheggiato sul ciglio della strada, coi fari spenti. I magistrati di Frosinone concludono che si è trattato di una disgrazia, eppure lo stato in cui viene ritrovata la Mini minor fa pensare alla presenza di un terzo veicolo. Un mezzo che potrebbe aver speronato l'auto dei ragazzi spingendola contro il rimorchio.

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Il Golpe borghese

Pochi mesi dopo l'incidente e mentre in Reggio Calabria si combatte una vera e propria guerra civile, a Roma il principe nero Junio Valerio Borghese, sotto l'egida Fronte Nazionale marcia su Roma tentando il colpo di Stato. Secondo i piani dell'ex colonnello della X Mas, il golpe avrebbe portato all'assedio del Ministero dell'Interno, del Ministero della Difesa e delle sedi RAI. Il piano prevedeva anche la deportazione degli oppositori, il rapimento del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat e l'assassinio del capo della polizia Angelo Vicari. Il colpo di Stato viene annullato dallo stesso Boghese, per motivi mai chiariti.

‘Una disgrazia'

"Abbiamo scoperto cose che faranno tremare l'Italia", aveva confidato Gianni Aricò alla madre pochi giorni prima di morire e pochi mesi prima del Golpe Borhese. "È meglio che non faccia partire tuo figlio", aveva detto un amico poliziotto al padre di Lo Celso, la sera prima della partenza. Impossibile non pensare che i ragazzi fossero in possesso di notizie riservate e delicatissime e che molto di quello che sapevano era custodito nel bagagliaio della Mini minor blu, che dopo l'incidente fu trovata completamente svuotata del carico di documenti. L'inchiesta viene ugualmente archiviata nel 1971, così come nello stesso periodo, grazie a un compromesso, viene deposta ogni rivendicazione dagli insorti di Reggio. Il presidente del consiglio Emillio Colombo annuncia in parlamento che l’università e il capoluogo resteranno a Cosenza e Catanzaro, ma in cambio Reggio diventerà il primo polo siderurgico, con un investimento di 10mila posti di lavoro. La polizia e l’esercito entrano in città per sgomberare le barricate. I moti, insanguinati da 28 attentati dinamitardi, hanno fatto decine di morti, centinaia di feriti.

La verità

Nel 1993 nell’ambito di una maxi inchiesta “Olimpia 1” sulla ‘Ndrangheta calabrese, il pentito Giacomo Lauro, dichiarò davanti al sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia Vincenzo Macrì, di aver saputo nel 1979, in carcere, che era stato il neofascista Vito Silverini, a piazzare la bomba di Gioia Tauro su mandato del Comitato d'azione Reggio Capoluogo. Dichiarazioni confermate davanti al giudice istruttore Guido Salvini, che indaga anche sui fatti di piazza Fontana e suffragate dalla testimonianza di Carmine Dominici, neofascista di Avanguardia nazionale calabrese, ex faccendiere del marchese Felice Genoese Zerbi, dirigente di An. La rivolta calabrese, secondo le dichiarazioni del pentito, sarebbe stata armata dalla ‘Ndrangheta, che forniva il materiale esplodente e finanziata da facoltosi esponenti di Destra. Come ipotizzavano i cinque anarchici calabresi dietro la rivolta per Reggio Capoluogo c'era la longa manus della destra eversiva che, dalla capitale, controllava tutto. Nel luglio 1995 vengono indagati per concorso in strage l’armatore Amedeo Matacena senior, Angelo Calafiore, ex-consigliere provinciale missino di Reggio, Fortunato Aloi e Renato Meduri. Tutti vengono prosciolti.

L'epilogo

Lauro  rivela che quello di Gioia Tauro sarebbe stato un attentato e che il materiale lo avrebbe procurato lui. La carica di esplosivo era stata sistemata sui binari, era esplosa prima del passaggio del convoglio, formando un fosso profondo diversi metri e causandone il deragliamento. Dominici aggiunse che nell'ambiente della malavita calabrese, della morte dei quattro ragazzi su parlava come di un omicidio. Dopo quarantasette anni i nomi di chi commissionò la strage restano ignoti. Fu uno dei tanti funesti episodio che hanno caratterizzato il periodo storico della strategia della tensione. Quanto alla tragica morte di quei quattro brillanti ventenni una sola cosa è certa: il camion parcheggiato era di proprietà di un’azienda del ‘principe nero’, Junio Valerio Borghese.

Le vittime della Strage di Gioia Tauro

Rita Cacicia

Rosa Fassari

Andrea Gangemi

Nicoletta Mazzocchio

Letizia Concetta Palumbo

Adriana Maria Vassallo

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Giornalista dal 2012, scrittrice. Per Fanpage.it mi occupo di cronaca nera nazionale. Ho lavorato al Corriere del Mezzogiorno e in alcuni quotidiani online occupandomi sempre di cronaca. Nel 2014, per Round Robin editore ho scritto il libro reportage sulle ecomafie, ‘C’era una volta il re Fiamma’.
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