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I luoghi comuni sulla violenza dei latinos e il razzismo degli italiani

L’aggressione al capotreno di Milano ha svelato l’esistenza di una gang latino americana che fino ad oggi era stata sottovalutata. Il rischio, tuttavia, è di usare l’origine etnica dei delinquenti per avallare una forma di razzismo che strumentalizza il doveroso rispetto delle regole.
A cura di Marcello Ravveduto
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Quando parliamo della gang Mara Salvatrucha (MS13) sappiamo di cosa stiamo parlando? Mi è parso di trovare, negli articoli riguardanti l’assalto al capotreno di Trenord, Mario Di Napoli, molto sentito dire senza un necessario approfondimento sull’argomento. Una serie di luoghi comuni confusi con il razzismo ormai dilagante di un paese che per tutta la sua storia, almeno fino ad una ventina d’anni fa, era praticamente monoetnico, con qualche presenza “estranea” legata a flussi migratori di poco conto e socialmente compatibili (le colf filippine, i latino americani di origine italiana, i vu cumprà senegalesi e i rifugiati della Somalia e dell’Eritrea). La fine della guerra fredda e lo scoperchiamento di società miserrime nell’est europeo ha lasciato emergere la paura verso le ondate di albanesi, di rumeni e ridato fiato alla paura per gli zingari. Ora è la volta degli sbarchi.

Un post lanciato su Facebook ha fatto scalpore: una giornalista viaggiando dal Cilento a Napoli ha notato che il controllore mentre multava una vecchietta claudicante priva di biglietto, che aveva raggiunto il treno a fatica, lasciava agire indisturbati otto ragazzi di colore: "Cappellini da baseball, catene d’oro pesanti, zaini Invicta, cuffie enormi appoggiate al collo e iPhone in mano. Tutti. Il controllore passa a chiedere i biglietti. A tutti noi. A loro no, non chiede null"». Si capisce che ha paura vista l’aria minacciosa, almeno a quanto si racconta.

Poi, quando l’atteggiamento del capotreno è collegato all’episodio di Milano, scrive: "… in serata scopro che due sbandati della pericolosa gang dei Latinos (ovviamente profughi che fuggono dalla guerra pure loro, eh, capiamoli), a Milano, staccano un braccio a colpi di machete a un controllore di soli trent’anni perché aveva “osato” chiedergli il biglietto… Mica siamo in America, che gli sparano senza manco dirgli ‘mani in alto'. Qui si può tutto. E loro lo sanno. Che ci fa la gang dei Latinos a Milano? Perché dei pericolosi teppisti sudamericani stanno da noi? Come sono arrivati? E i controlli? Chi sono? E’ bello vedere le stazioni di Roma Tiburtina e quella di Milano ridotte a campi di accoglienza con gente buttata per terra, sporco, piscio, pannolini di bambini e spazzatura ovunque?".

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Ho utilizzato questo post per dimostrare come alla base di ogni narrazione agisca un potente fattore di qualunquismo, nel senso che un qualunque argomento viene ricondotto nella sfera securitaria della difesa personale, della tutela della propria libertà intesa come incolumità fisica. La paura del contatto con un mondo violento e predatorio, che crediamo non ci appartenga, è un fattore condizionante perché genera tensione: può succedere ovunque, in qualsiasi momento, a chiunque.

Questa mentalità, secondo cui la criminalità comune è più pericolosa del crimine organizzato, la dobbiamo alla politica che, nell’ultimo ventennio, ha scaricato sul tema securitario la diminuzione del benessere collettivo, tacendo, in realtà, le proprie colpe legate all’incapacità di ristrutturare il Paese nel verso della Globalizzazione.

Del resto lo stereotipo delle mafie, come cancro all’interno di un corpo sano, ci ha aiutato a pensare che boss e gregari si ammazzano tra di loro e al massimo fanno fuori qualche poliziotto, alcuni magistrati, taluni giornalisti ma non interferiscono nella vita del cittadino comune. È una questione di potere e il potere è stato delegato ai banchieri e in subordine ai politici; poco importa se quei banchieri si arricchiscono riciclando il denaro del narcotraffico (causa principale della formazione di gang metropolitane) e se quei politici si accordano con i clan per ottenere voti e fare affari, sottraendo risorse alla collettività.

Sono aspetti negletti, nascosti, insondabili, occulti proprio perché ritenuti accessori al potere, un male con cui bisogna convivere. Invece, negri, latinos, zingari, rumeni, marocchini, sono visibili perché sono in strada, perché fanno rumore, perché sono diversi dal commercialista che predispone la nostra dichiarazione dei redditi consigliandoci come evadere o dall’avvocato che emette fattura per nascondere una tangente sull’appalto di una scuola. Cosa importa se, poi, in quella scuola crollerà il tetto? Siamo un popolo superficiale, troppo.

Prepariamoci ad un’ondata mediatica sull’invasione delle gang latinoamericane, nuova e fresca arma di “distrazione di massa”. Vorrei far presente che già nel 2011 la questura di Milano aveva segnalato un pericoloso diffondersi della Mara nella città di Milano, ma nessuno mi pare che allora abbia preso seriamente in considerazione l’allarme. In verità, il primo radicamento è avvenuto a Genova nel quartiere Sampierdarena che è stato ribattezzato San Pedro de Areña. Nella città meneghina, invece, Rozzano è diventata Rozzangeles. Il flusso migratorio che li ha portati in Italia non è quello dei profughi e degli sbarchi. Arrivano in uno dei principali aeroporti del nord con la giustificazione di venire a trovare parenti già sistematisi in questo paese.

Il fatto è che i controlli sui migranti del Centro-Sud America sono sempre stati inferiori rispetto a quelli praticati nei confronti delle persone provenienti dall’Africa e dal Medioriente. Per diversi motivi: sono cattolici, di origine latina e hanno usi e costumi non molto dissimili dai nostri. Insomma li riteniamo compatibili forse perché siamo influenzati dal mito dell’America latina.

I più pericolosi, però, sono gli adolescenti, molti dei quali sono cresciuti in questo paese in ambienti urbani desolati e in condizioni di povertà. Entrano a far parte delle pandillas (noi le chiameremmo clan) appena hanno raggiunto la pubertà e cercano di raggiungere il benessere, a differenza dei genitori, partecipando al vasto mercato della droga. Non disdegnano azioni predatorie e agiscono con una violenza tribale estremizzata dall’esuberanza adolescenziale, rafforzata dall’uso compulsivo e miscelato di droghe (cocaina, crack, ecstasy). Non sono tanto diversi, in verità, dai ragazzini che a Forcella hanno sparato ad un immigrato, per provare l’efficienza di una pistola, e a Pozzuoli hanno assassinato un coetaneo, dopo avergli chiesto una sigaretta, perché uno del gruppo doveva avere il battesimo del fuoco.

I giovani latinos delle gang vengono chiamati "piranhas" e privilegiano, come campo d’azione, i parcheggi isolati. La modalità è questa: ti arrivano alle spalle, ti minacciano con un coltello o con un machete, ti fanno denudare, poi dopo aver preso i soldi s’impossessano dell’auto e vanno a fare un altro colpo, per esempio una rapina in banca.

Nell’immaginario collettivo il machete richiama immediatamente la violenza delle popolazioni latino americane, abituate ad usare questo arnese per troncare la folta piantagione delle foreste equatoriali. Un’arma simbolica che serve ad affermare un’identità etnica specifica. Ma è solo una strumentalizzazione culturale. Infatti, l’MS-13 è un’organizzazione criminale che non ha origine nei paesi del Centro-Sud America ma nel contesto metropolitano dei ghetti statunitensi. Le prime pandillas nacquero negli anni 80 in California. Alcuni immigrati salvadoregni violenti formarono un sodalizio criminale per rispondere, con la stessa moneta, agli attacchi dalle gang afroamericane e messicane. Nei film americani di quegli anni si coglie con nettezza il diffondersi del fenomeno: in ogni ghetto viene sempre riprodotta una tensione crescente tra i “niggaz” e i latinos. Dunque non si tratta dell’importazione di una criminalità autoctona ma della violenza che si genera in un contesto di marginalità sociale in cui si scontrano diverse etnie per il controllo dello spaccio. Da qui l’uso del machete come emblema identitario.

Naturalmente lo scontro non è di natura etnica, il razzismo interno al ghetto è solo una scusante “morale” per proporsi come “difensori armati” dei latinos. Inizialmente l’adesione era consentita ai soli salvadoregni, ma l’espandersi della lotta con le gang afroamericane ha aperto le porte ad altri componenti del mosaico latino americano, in particolare ai giovani dell'Honduras, del Guatemala e dell’Ecuador. L'ingresso nella MS-13 comporta prove durissime che vanno dal pestaggio selvaggio per i ragazzi allo stupro di gruppo per le ragazze. Nonostante ciò le file della Mara sono in costante aumento. L'Fbi la reputa la più pericolosa banda di strada su scala planetaria: oltre 50.000 adepti nel Centro-America, 10.000 negli USA e più di 100.000 nel resto del mondo. Basti pensare che il Federal Bureau of Investigation ha istituito nel 2005 una task force per fronteggiare la MS-13 negli Stati Uniti.

Se il povero capotreno non fosse stato aggredito l’opinione pubblica nazionale nemmeno se ne sarebbe accorta dell’esistenza di una così violenta organizzazione criminale. La verità è che si preferisce far ricadere sugli “altri” lo stato di declino del nostro paese cercando capri espiatori esterni. Uno degli aspetti più rognosi di tutta questa storia è che si strumentalizza il rispetto delle regole, ignorando al contempo che la Globalizzazione ha sovvertito tutte le regole costitutive su cui si fonda lo Stato-nazione.

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