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Fino a 200 euro per “restituire” i morti: “Qui da noi funziona così”. L’inchiesta sulle tangenti a Palermo

L’inchiesta della procura di Palermo coinvolge 4 impiegati e 11 titolari di pompe funebri. Le mazzette partivano da 50 euro (per vedere la salma di un proprio coniuge) fino a 200 per espiantare un pacemaker perché “qui funziona così, sempre soldi gli si dà se si vuole fare”, si sente in un’intercettazione.
A cura di Biagio Chiariello
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A Palermo, la morte aveva un prezzo. Cinquanta euro per poter vedere la salma della propria consorte prima che scomparisse nei meandri dell’obitorio del Policlinico, cento se si voleva accelerare le pratiche e semplificare la burocrazia. Queste alcune delle cifre del “tariffario” messo a punto da quattro impiegati della camera mortuaria, che insieme a undici titolari e dipendenti di agenzie funebri sono finiti al centro di un’inchiesta della procura di Palermo. La richiesta dei magistrati guidati da Maurizio de Lucia: l’arresto per associazione a delinquere, concussione e corruzione.

Secondo quanto ricostruito, gli indagati avevano creato un vero e proprio sistema consolidato, dove il denaro serviva a “accelerare e oliare” le pratiche relative al rilascio delle salme, alla vestizione dei defunti e ad altri adempimenti burocratici. In alcuni casi, si arrivava persino a chiedere 200 euro per l’espianto di un pacemaker. Gli operatori dell’obitorio avevano regole precise, spartivano i guadagni tra loro e trattavano i familiari e le imprese funebri come clienti obbligati a rispettare la tariffa: chi non pagava veniva minacciato o ostacolato nelle pratiche.

L’inchiesta ha preso avvio per caso, a Milano, nell’ambito di un’altra indagine. La telefonata intercettata di Francesco Trinca, titolare di una pompa funebre siciliana, ha rivelato il meccanismo: mentre discuteva il trasferimento di un cadavere in Lombardia, spiegava candidamente al collega che "qui funziona così, sempre 100 euro gli si dà se si vuole fare". Nessuno immaginava di essere ascoltato, e quella frase ha aperto le porte a un’indagine più ampia che ha confermato il sospetto: negli anni, quel sistema era diventato routine. "Solo a giugno ho messo da parte 400 euro", raccontava uno degli impiegati, mostrando come il mercimonio dei defunti fosse diventato una fonte di guadagno stabile.

Il giro di mazzette non si limitava ai contatti con le pompe funebri consolidate. Anche nuovi operatori, che per la prima volta si affacciavano all’obitorio, erano avvertiti: il pagamento era obbligatorio e, se necessario, diviso tra i quattro impiegati. Il patto era rigido: ferie, assenze o malattie non interrompevano la spartizione dei soldi. Le intercettazioni rivelano conversazioni di straordinaria normalità, mentre si parlava di somme e di “chi deve fare cosa”: "Qua buono mangiamo", diceva un dipendente, quasi con tono sbrigativo, come se nulla fosse più naturale che speculare sulla morte.

La procura ha chiesto l’arresto per 15 persone: quattro di loro sono impiegati dell’obitorio; undici sono tra i titolari e i dipendenti delle pompe funebri. Nei prossimi giorni il gip deciderà sull’emissione delle misure cautelari.

La vicenda ha rivelato un malcostume che andava avanti da tempo e che, secondo i magistrati, caratterizzava la quotidianità dell’obitorio: "C’era una rete di anomali e patologici rapporti", hanno scritto i pm, "gli impiegati praticavano quotidianamente il mercimonio della propria funzione pubblica". Dietro la fredda routine dei registri e dei certificati si muoveva un meccanismo crudele: ogni famiglia che si trovava di fronte al dolore veniva costretta a pagare per avere un trattamento che sarebbe dovuto essere normale e rispettoso. Vedere la salma della propria moglie, del proprio marito, dei propri cari non era un diritto: era un lusso, a pagamento.

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