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“Dalle Forze Speciali a lavapiatti”: così l’Esercito ha trattato il militare che denunciava gli abusi

Da più di vent’anni il maresciallo Carlo Chiariglione denuncia abusi e vessazioni all’interno dell’Esercito italiano, situazioni che ha vissuto in prima persona e di cui è venuto a conoscenza attraverso l’associazione AssoMilitari.
A cura di Backstair
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A cura di Cristiana Mastronicola

Insulti, umiliazioni, ritorsioni. Il mondo dell’Esercito italiano non è mai stato descritto così a tinte fosche. Eppure è questo quello che emerge dal racconto del maresciallo Carlo Chiariglione, in servizio dal 1994 al 2021 per la maggior parte nel corpo militare degli Alpini, che, dopo aver denunciato ai suoi superiori ingiustizie e irregolarità,  racconta di essersi trovato a vivere in un clima, che descrive come di “vessazioni quotidiane”. Oggi il maresciallo Chiariglione è in congedo. A deciderlo è stata l’Arma stessa: l’accusa è di vilipendio alle forze armate per la pubblicazione di una lettera indirizzata al Presidente della Repubblica in cui raccontava episodi di soprusi nel comparto Difesa e Sicurezza. Resoconti dettagliati che, in alcuni casi, raccontavano addirittura storie di suicidi. Circostanze che sono difficili da immaginare per chi vive fuori dalle caserme, ma che sembrerebbero essere all’ordine del giorno per molti militari.

Secondo il racconto del maresciallo Chiariglione, il congedo è l’ultimo tassello di una storia molto complessa che affonda le radici nel lontano 2002 con una semplice raccolta fondi. In quell’anno l’Italia è impegnata nella missione I.S.A.F. (International Security Assistance Force) della Nato in Afghanistan, dove arrivano oltre 3100 soldati italiani. Tra loro anche il maresciallo Carlo Chiariglione, all’epoca Caporal Maggiore Scelto in servizio presso il reparto di Forze Speciali del 4° Reggimento Alpini Paracadutisti Ranger.

Mondo militare e civile uniti per l'Afghanistan

Una guerra sanguinosa in quegli anni segna l’Afghanistan e Carlo Chiariglione, a qualche mese dalla partenza, pensa alla possibilità di organizzare una raccolta fondi in favore dei bambini mutilati di Kabul. “Avevo pensato a una collaborazione tra mondo militare e mondo civile e per questo, prima di partire, ne avevo parlato con alcuni esponenti di Ong e con l’ufficio ROC del reparto affari generali dello Stato Maggiore dell’Esercito”. Nelle lettere che abbiamo potuto visionare, inviate all’epoca dei fatti a personalità della sfera militare, già durante la missione, Chiariglione spiega la natura della missione: “Sto organizzando, in collaborazione con il Ministero della Difesa e con Emergency, una raccolta fondi per il nuovo ospedale che Emergency ha intenzione di costruire nella zona del Panshir, nonché beni e materiali da distribuire alla popolazione”.

Chiariglione si muove per avere il benestare di tutte le voci in capitolo e parla coi suoi superiori. “Il mio comandante di allora, il Tenente Colonnello Ignazio Gamba, a marzo 2002, mi autorizza verbalmente a procedere in maniera autonoma. Così ne parlo con comandanti di compagnia, di plotone e con i miei compagni, che sarebbero partiti con me di lì a qualche mese per la missione di Kabul”, ci spiega Chiariglione.

È sempre in questi documenti che si legge che Chiariglione per la raccolta fondi sta collaborando con un civile: “Avevo pensato di coinvolgere un amico che lavorava in tv, all’epoca molto conosciuto per una fiction in onda sulla Rai. Sarebbe diventato testimonial di questa missione, facendo conoscere anche al pubblico più giovane l’impegno dell’Esercito”, racconta.

Un civile a Kabul

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Il testimonial prescelto è Davide Ricci, che nel 2002 è all’apice della sua carriera. In tutta Italia, soprattutto tra i giovanissimi, è conosciuto come Cristiano Magri, uno dei protagonisti di Cuori Rubati, in onda ogni giorno alle 18.30 su Rai 2. “Carlo mi sapeva sensibile alla beneficenza e a quello che stava soffrendo la popolazione afghana”, ricorda Ricci, che già si era impegnato per mandare beni a Kabul. “Ci eravamo conosciuti qualche anno prima ed eravamo rimasti in contatto. La sua idea, che mi era sembrata lungimirante per l’immagine delle forze armate, era quella di dare un segnale pubblico del fatto che gli italiani non fossero in Afghanistan per fare la guerra, ma per aiutare la popolazione locale”, continua l’attore. Era l’unico conoscente di Chiariglione che lavorasse in tv, “potevo dare la giusta visibilità a questa operazione”, racconta.

L'entusiasmo di Gino Strada

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Chiariglione, intanto, parte per Kabul insieme ai suoi compagni, ma continua a occuparsi dell’organizzazione della missione: “Continuavo ad adoperarmi affinché Ricci ricevesse tutte le autorizzazioni necessarie per poter partire, – spiega il maresciallo – dietro il permesso e il supporto dei miei superiori”. È proprio da Kabul che scrive lunghe lettere in cui presenta l’operazione: è il 13 giugno del 2002, quando, ad esempio, rivolgendosi al Generale di Corpo d’Armata Bruno Iob, Chiariglione racconta dell’incontro con i bambini dell’ospedale di Kabul e dell’accoglienza calorosa della popolazione afghana nei confronti del contingente italiano, e sempre in quella lettera presenta la raccolta fondi: “Per favorire questo avvicinamento tra popolazione civile e popolazione militare ho chiesto a varie Ong, al personale dell’Università, ad alcune personalità del mondo dello spettacolo e oltre all’ufficio Risorse Organizzative e Comunicazione dello Stato Maggiore dell’Esercito con cui da vari mesi sono in contatto e con cui ho un’ottima collaborazione, se volevano partecipare in comunione con la nostra struttura militare, rappresentata dal personale del nostro Battaglione, ad una raccolta fondi in favore della popolazione afghana”.

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Ed è sempre a Kabul che coinvolge direttamente Gino Strada e la sua Emergency: “Gino Strada, visto anche il continuo e poliedrico supporto donato dai militari italiani presenti in teatro nei confronti della popolazione afghana nonché nei confronti di Emergency è rimasto felicemente colpito da questa richiesta. Il punto principale che abbiamo concordemente espresso e fortemente sostenuto è che nessuno dei due avrebbe voluto una qualsivoglia strumentalizzazione da parte di chiunque nei confronti di questa collaborazione tra militari ed Emergency”, si legge nei documenti di Chiariglione.

I preparativi dell'attore

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Anche Ricci in Italia si muove per ottenere le autorizzazioni per partire ad agosto: “Parlo con Federico Lunardi, il capitano medico che diventerà il mio punto di riferimento a Kabul, che mi indirizza ai vertici che avrebbero dovuto decidere”. L’attore, ci racconta che su indicazione del Tenente Colonnello Faustini, scrive una mail al Tenente Colonnello Castaldi: “Previa vostra autorizzazione, avrei organizzato insieme al Caporal Maggiore Scelto Carlo Chiariglione, alpino paracadutista del Battaglione Ranger “Monte Cervino”, in missione a Kabul, un progetto di raccolta fondi per la costruzione del nuovo ospedale Emergency”, si legge nella mail. Come racconta Ricci, è disposto a partire e a metterci la faccia, ma a patto che l’operazione sia a costo zero: “Sarebbe stato vano il buonsenso dell’impresa, per questo si optò per un volo militare e un soggiorno semplice e spartano presso il contingente militare. Passaggi, questi, che presupponevano ovviamente un nulla osta dall’alto”. Ricci, quindi, dopo qualche indicazione operativa su cosa avrebbe potuto fare una volta arrivato al campo, partirà con un volo militare da Pratica di Mare.

Il Caporal Maggiore Scelto "pazzo" e "irresponsabile"

Poco prima della partenza, però, qualcosa va storto: “Il Ministero della Difesa, venendo a conoscenza del progetto ne chiede conto al Comandante di contingente colonnello Riccardo Marchiò, che della questione non sa nulla, perché il mio superiore Ignazio Gamba non lo aveva avvisato”, riferisce Chiariglione. A quel punto, come spiega l’allora Caporal Maggiore Scelto “il comandante del battaglione, il tenente colonnello Gamba, e il comandante di compagnia, il comandante Danieli e altri superiori negano di fronte ai vertici militari di essere a conoscenza del progetto. Nonostante mesi di mail e incontri. Gamba mi chiama “pazzo” e “irresponsabile” e mi incolpa di non aver avvisato la scala gerarchica. Mi toglie l’organizzazione del progetto, ma decide comunque di portarlo avanti, riconoscendone l’importanza”. Lo stesso Ricci che viene a conoscenza della questione  si stupisce: “Io avevo parlato con il capitano Federico Lunardi che erano tutti informati, tanto che c’era stato un ok dal ministero affinché potessi salire su un aereo militare. Per questo mi aveva stupito capire che era stata mossa quell’accusa a Chiariglione”.

“Eravamo tutti a conoscenza della missione, Carlo ci aveva avvisati prima di partire e ci aggiornava passo passo sull'evoluzione del progetto. Tutti sapevamo che Ricci sarebbe arrivato a Kabul e sarebbe rimasto con noi per un mese”. A parlare è un militare allora di stanza in Afghanistan, nello stesso distaccamento di Chiariglione. Il militare – che sceglie di restare anonimo – ci lascia capire tra le righe perché i comandanti abbiano reagito negando di essere a conoscenza della missione: “Era una cosa del tutto nuova far arrivare un civile in un campo base. I nostri superiori  erano preoccupati che succedesse qualcosa con i loro uomini e che potessero andarci di mezzo loro. Nell’Esercito funziona così: se un tuo uomo combina casini, il primo a rispondere sulla catena gerarchica è il diretto superiore”. La presenza di Ricci nel campo militare, dunque, viene ritenuta destabilizzante.

La missione di Ricci

Poco a poco, però, il clima si distende e le giornate dell’attore si susseguono tra visite ai bambini feriti e donazioni agli ospedali: “Salivo sulla camionetta scortato dai militari e accompagnavo Federico Lunardi nei sopralluoghi negli ospedali. Concretamente facevo ben poco, perché l’ospedale non voleva impiegarmi a tempo pieno”. Con sé aveva portato decine di paia di scarpe da donare alla popolazione e insieme agli altri militari italiani si era sdraiato sul lettino di un ospedale afghano e aveva donato il sangue.

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Parallelamente va avanti anche la collaborazione con Emergency e Gino Strada in più occasioni visita il campo dove tiene delle conferenze sul ruolo della sua Ong nei teatri di guerra, sull’Afghanistan e sulle cure arrecate ai bambini di Kabul.

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Quell'episodio che rovina tutto

La missione procede liscia, finché non succede qualcosa che rompe l’equilibrio precario. A raccontare e denunciare quell’episodio è proprio Carlo Chiariglione: “Io stavo camminando nella base con Ricci quando ho sentito chiaramente un sottufficiale ripetere per tre volte in direzione dell’attore ‘frocio di merda’”. A pronunciare quelle parole era un maresciallo, un superiore di Chiariglione: “Ricci era qualche metro più in là e non si è accorto di niente. Mi sono rivolto a questo maresciallo e gli ho detto che ne avremmo parlato in un altro momento, lui di tutta risposta mi dice ‘devi capire, lui viene in questo ambiente di maschi con quest’aria effeminata’”.

Ricci non si accorge di niente e Chiariglione non gli riferisce quanto accaduto: “Lo vengo a sapere da altri. Mi sono sentito molto offeso in quel momento. E soprattutto ero un ospite: non potevo andare via, dovevo rimanere lì, senza che nessuno si preoccupasse di scusarsi”. Quell’episodio, spiega l’attore, rovina tutto.

L’allora Caporal Maggiore Scelto decide di seguire le regole e informa la linea gerarchica dell’accaduto: “Riferisco tutto ai miei superiori, ma nessuno muove un dito”. La missione si trascina fino al suo termine e il giorno prima di partire si tiene una serata di saluti: “Mi sono voluto togliere qualche sassolino – ci racconta Ricci – ho preso parola e ho ringraziato per l’esperienza. Ho detto che ero stato bene, ad eccezione dell’episodio che aveva visto coinvolto il maresciallo che l'aveva apostrofato con queste parole. Ho fatto nome e cognome e ho detto che il maresciallo doveva capire che ci sono famiglie, società e ambienti in cui non è necessario mettersi degli anfibi per sentirsi maschi”. Chiariglione è lì anche in quel momento e capisce che quelle parole hanno innescato qualcosa di pericoloso: “È successo il finimondo, perché parte dei militari ha inteso il discorso di Ricci come un attacco al lavoro svolto”. L’attore racconta che il maresciallo in questione aspetta che la serata si concluda e che i comandanti siano andati via, poi si scaglia contro di lui: “Ha dato in escandescenza, l’hanno trattenuto mentre si faceva avanti urlando e ha ripetuto l’offesa. Stavolta me l’ha detto in faccia”. Le ultime ore di Ricci nel campo base sono segnate da quest’evento: “C’era un clima omofobo, l’ho avvertito anche prima di questo episodio. Ci sono state delle impressioni che poi si erano concretizzate con quell’insulto”. Il giorno dopo, quando riparte, l'attore decide di tenere per sé l’accaduto: “Temevo che dare pubblicità alla cosa – come meritava ci fosse, perché nessuno si è mai scusato – avrebbe dato problemi a Chiariglione”.

Le conseguenze della denuncia

Questi problemi, però, ci spiega l’allora Caporal Maggiore Scelto, arrivano lo stesso. “I quadri superiori mi accusarono di aver voluto ospitare Ricci al fine di creare problemi”, spiega Chiariglione, che in quel momento riceve anche un demansionamento: “Mi tolgono dal ‘Plotone Ricognizione’, plotone d’elite del reparto, e mi mettono a fare il lavapiatti in un’altra base”. Per ordine del tenente colonnello Ignazio Gamba, Chiariglione finisce in cucina e a consegnare vassoi alla sala refettorio, e trascorre così il suo ultimo periodo di permanenza a Kabul: “Prendere uno degli uomini più anziani e più titolati e metterlo a fare questa mansione davanti a tutti nasconde un simbolismo che non è positivo. Quindi l’amministrazione invece di intervenire contro i responsabili dell'accaduto, ha attaccato me. E tutto questo è successo solo perché avevo osato chiedere un intervento alla linea di comando”.

Nessuna risposta

Di fronte al demansionamento, Chiariglione racconta che per 17 giorni ha chiesto di poter incontrare il tenente colonnello Ignazio Gamba e il comandante della missione, il colonnello Riccardo Marchiò: vuole delle spiegazioni, ma non riceve nessuna risposta. “Dopo l’ennesimo rifiuto ho presentato richiesta scritta e protocollata direttamente al comandante del contingente, colonnello Marchiò”. Salta un gradino, Chiariglione, e si rivolge al superiore del suo superiore: in questo modo Gamba non può ignorare la sua richiesta e, infatti, passano appena 30 minuti, dice il maresciallo, e viene chiamato a colloquio dal tenente colonnello: “In quel momento il tenente colonnello Gamba mi conferma il trasferimento ad altra mansione e giustifica la decisione dicendo che l’aveva fatto per la mia incolumità, senza dare altre spiegazioni”, continua Chiariglione. Ma la spiegazione vera, secondo quanto ci riferisce Chiariglione, sarebbe arrivata in un colloquio che si svolge nei giorni successivi, poco prima della partenza: “Gamba in quell’occasione mi incolpa di non aver preso le difese del maresciallo che aveva offeso Ricci e, anzi, di aver portato ‘un frocio in missione’”.

La casta nelle caserme

Ad avvalorare la testimonianza di Chiariglione è il suo collega, presente a Kabul e ancora oggi nell’Esercito, che spiega come la reazione dei superiori fosse frutto della volontà di difendere a tutti i costi il proprio potere dentro le caserme, ieri come oggi: “Queste ritorsioni avvengono per paura dei superiori di dover pagare, di incappare in controlli che potrebbero mettere a rischio la propria carriera”. Negare che Chiariglione avesse informato i superiori della missione prima e demansionarlo poi si inseriscono quindi nell’ottica di contenimento di un ipotetico danno: “Quando si è responsabili e il personale non esegue gli ordini, si può ricevere anche un abbassamento delle note caratteristiche – su cui si fonda il curriculum di un militare – per non aver adempiuto al proprio dovere di controllo del personale. I superiori ricorrono alle ritorsioni e alle vessazioni quando temono di poter incorrere in sanzioni disciplinari”.

Quanto accaduto nel 2002 a Kabul è uno spaccato di quello che secondo le testimonianze accadrebbe quotidianamente in caserma: “C’è una casta che si autoprotegge”, continua il collega di Chiariglione, che spiega ancora che “quando accade anche una piccolissima ingiustizia, il personale preferisce stare tranquillo e non farlo presente. E questo perché tutti hanno paura del sistema”.

Dal 2002 a oggi: anni di ritorsioni e soprusi

Per Chiariglione l’agosto del 2002 è stato il giro di boa della sua carriera dentro l’Esercito: “È stato uno degli eventi scatenanti che ha fatto sì che dal 2002 a oggi fossi oggetto di ritorsioni”. L'accusa verso Chiariglione fu di aver organizzato la missione con Ricci senza rendere partecipi i suoi superiori: “Ci fu un’indagine e mi scagionarono da ogni accusa, ma nessuno fu punito per quanto successo a Kabul. L’unico a pagarne le conseguenze sono stato io, perché da quel momento in poi Ignazio Gamba e l’allora comandante di compagnia Davide Danieli mi hanno ostacolato in tutti i modi”. Oggi entrambi rivestono ruoli apicali nel corpo degli Alpini: Danieli è diventato tenente colonnello e capo ufficio segreteria del Capo di Stato Maggiore, mentre Gamba dal 2021 è Generale di Corpo d’Armata e Comandante delle truppe alpine, lo stesso comando che ha sancito il congedo di Chiariglione e l’avvio di diversi procedimenti penali a suo carico, che fin ora sono terminati con assoluzioni a suo carico.

Quello che racconta Chiariglione si legge nero su bianco in una memoria che il maresciallo redigerà nel dettaglio durante quella stessa missione in Afghanistan, indirizzandola al comandante di contingente colonnello Riccardo Marchiò, in cui si difenderà dalle accuse di Ignazio Gamba ricostruendo cronologicamente e con tanto di documentazioni a corredo quanto accaduto.

Stress, malessere e suicidi

Leggendo le centinaia di documenti forniti dal maresciallo, sembrerebbe esserci un filo rosso che lega gli eventi dell’estate del 2002 a oggi: l’insistenza di Chiariglione nel denunciare illeciti e irregolarità e i nomi delle persone coinvolte in queste denunce. “I fatti che ho denunciato negli anni sono legati a episodi di vessazioni e ritorsioni vissute dai militari”, racconta. Questo stress vissuto in servizio, racconta Chiariglione, accentuerebbe il malessere delle persone fino a spingerle, talvolta, a gesti estremi. Rispetto al tema delicato dei suicidi nell’Esercito, il maresciallo Chiariglione racconta di aver denunciato un soggetto che secondo lui metteva in atto comportamenti vessatori nei suoi confronti e nei confronti di altri colleghi, senza che la linea di comando intervenisse. A 30 giorni da quella relazione, sotto quello stesso comandante che il maresciallo denunciava, un collega si è tolto la vita. “Lo conoscevo dal ‘96. Era un uomo dal carattere molto forte. La prima cosa che ho pensato, sapendo che lavorava sotto quel comandante, è che avesse vissuto delle situazioni stressogene”. Quello che si domanda Chiariglione è: “Quel comandante è stato negli ultimi 10 anni denunciato come possibile vessatore, perché non sono state fatte le indagini per vedere se quanto denunciato fosse vero o meno?”.

A compiere questi atti vessatori sarebbero, come spiega Chiariglione, sempre soggetti in alto nella scala gerarchica, che sebbene sarebbero stati denunciati oggi ricoprono ruoli apicali: “Si tratta sempre degli stessi soggetti, se avessero aperto i procedimenti penali o disciplinari quando ho iniziato a denunciare, quei soggetti non sarebbero dove sono oggi”.

Le conseguenze per chi denuncia

Proprio per tutte le conseguenza subite dopo le sue denunce, Chiariglione decide di diventare presidente di AssoMilitari, l’associazione che supporta e tutela il personale delle Forze Armate e delle forze dell’ordine, e che raccoglie decine e decine di denunce da parte di militari: “Quasi tutti i giorni riceviamo segnalazioni, a volte si tratta di questioni burocratiche, ma il più delle volte si parla di demansionamenti, vessazioni, azioni disciplinari ripetute”.

Le denunce di irregolarità sporte da Chiariglione non sono mai state sconfessate e al tempo stesso il maresciallo non è mai stato denunciato per calunnia dai soggetti che indicava responsabili delle irregolarità. È andato incontro a numerosi processi e sanzioni disciplinari, a un trasferimento e infine al congedo, cui il Tar del Piemonte ha risposto con una riammissione lo scorso 22 ottobre, ma non è ancora sufficiente.

“Chi osa denunciare viene fatto oggetto di ritorsioni e vessazioni attraverso demansionamenti, apertura di procedimenti disciplinari di corpo e disciplinari di Stato, penali, congedo e trasferimento”, conclude il maresciallo Chiariglione, che, dopo anni di battaglie legali, oggi attende l’ennesima sentenza per sapere se e quando potrà tornare a fare il lavoro che ha scelto 30 anni fa.

Abbiamo chiesto al Tenente Colonnello Danieli e al Generale Gamba una replica rispetto ai fatti accaduti a Kabul nel 2002, ma dal primo non abbiamo avuto risposta e rispetto al secondo, l’ufficio generale del Capo di Stato Maggiore della Difesa ci ha comunicato di non poter accogliere la nostra richiesta di intervistare il Generale.

Se hai una storia di ingiustizia legato a questo tema scrivici a: backstair@fanpage.it

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