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Armi, USA e la colpa del non cambiare

La lobby delle armi sancisce il proprio potere non solo nei numeri spaventosi di un mercato mai in crisi ma soprattutto nello spostare l’asticella dell’etica pubblica: perché ci accorgiamo dell’irresponsabilità degli USA solo quando ci sono vittime? Perché ce ne dimentichiamo per anni fino alla strage successiva?
A cura di Giulio Cavalli
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Ancora una volta. Ancora Obama. Le inquadrature, le solite, quelle per i messaggi di cordoglio di Stato e le lacrime di sottofondo. Forse negli USA avranno un manuale di regia per le stragi da fuoco e forse un capitolo intero sulle stragi da fuoco e al college. Ci sono drammi come quello accaduto in Oregon che fiaccano per la loro imperturbabile ciclicità: come se fossero insiti nell'umanità di questo secolo, come se fossero il purgatorio che ci tocca e che possiamo solo raccontare o peggio come se fossero il simbolo dell'ineluttabilità del destino. Forse, invece, sono più banalmente le stigmate della pavidità politica di un Paese che non riesce a svincolarsi dalle sue lobby.

Era il 2002 quando il regista Michael Moore proiettò per la prima volta il proprio film documentario ‘Bowling a Columbine" in cui raccontava gli USA e quel suo smodato e dissennato amore per le armi. Fu celebre la scena in cui il documentarista mostra il fucile ottenuto "in omaggio" con l'apertura di un conto corrente bancario: armi come cadeaux promozionali. Con quel film Moore divenne Moore, il celebre regista vinse l'Oscar nell'anno successivo e ne seguì un dibattito accesissimo.

E poi? E poi siamo qui, oggi, tredici anni dopo a commentare la stessa notizia, con gli stessi toni, puntando sulle stesse colpe e snocciolando gli stessi numeri: quelli dei morti e quelli di una nazione che non impara dai propri errori. Ma se una critica rimane contemporanea per decenni di chi è la colpa? Il Presidente degli USA, Obama, ha dichiarato "siamo l'unico Paese moderno al mondo dove queste sparatorie sono diventate una routine" e ha accusato il Congresso e i governatori (quindi la politica, in fondo) di non averci messo troppo impegno. Colpa della politica, quindi. Certo. Ma più che di una legge che probabilmente andava già scritta dopo il massacro della Columbine High School in cui morirono 12 studenti (era il 20 aprile del 1999, nel secolo scorso) le vittime che oggi piangono gli Stati Uniti sono le stesse che stanno lì dove la politica non riesce ad essere più forte dei grumi economici.

La lobby delle armi (come la lobby del tabacco, come in Italia con la lobby delle banche o del cemento) sancisce il proprio potere non solo nei numeri spaventosi di un mercato mai in crisi ma soprattutto nello spostare l'asticella dell'etica pubblica: perché ci accorgiamo dell'irresponsabilità degli USA solo quando ci sono vittime? Perché ce ne dimentichiamo per anni fino alla strage successiva? Siamo cittadini sempre di corsa dietro l'ultimo allarme, ammaestrati alle priorità stabilite dagli altri, sempre pronti a buttarci sull'ultima paura totalizzante e anestetizzante: oggi sono le armi, poi domani tornerà ad essere l'Isis, poi i migranti, poi gli incidenti ferroviari al prossimo incidente ferroviario o gli incidenti aerei al prossimo aereo incidentato e così via in una lunga sequela di passioni fatue e altisonanti progetti utili ad essere solo enunciati.

La tragedia negli USA ci dice che la politica (tutta, di tutto il mondo) è misera senza una cittadinanza vigile. Ed è un messaggio pienissimo e responsabilizzante per tutti: per chi crede nella politica e per chi crede nella cittadinanza. Tertium non datur.

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Autore, attore, scrittore, politicamente attivo. Racconto storie, sul palcoscenico, su carte e su schermo e cerco di tenere allenato il muscolo della curiosità. Collaboro dal 2013 con Fanpage.it, curando le rubriche "Le uova nel paniere" e "L'eroe del giorno" e realizzando il format video "RadioMafiopoli". Quando alcuni mafiosi mi hanno dato dello “scassaminchia” ho deciso di aggiungerlo alle referenze.
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