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Abolire l’aborto negli Usa sarebbe un colpo mortale ai diritti delle donne

Una bozza di sentenza della Corte Suprema prevederebbe di limitare la sentenza Roe v. Wade che sancisce il diritto federale all’aborto negli Usa, una scelta che sarebbe un danno incalcolabile per i diritti delle donne.
A cura di Jennifer Guerra
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Foto di Kevin Dietsch/Getty Images)
Foto di Kevin Dietsch/Getty Images)

Gli Stati Uniti stanno per rinunciare a 49 anni di protezione dei diritti riproduttivi, stando a una bozza della sentenza della Corte Suprema divulgata dal quotidiano Politico. Se il documento redatto dal giudice conservatore Samuel Alito venisse confermato dalla maggioranza dei giudici, la Corte dichiarerebbe incostituzionale la sentenza del 1973 Roe v. Wade, che ha legalizzato l’aborto quasi cinquant’anni fa. Si tratta di una decisione senza precedenti e con conseguenze gravissime per milioni di donne negli Stati Uniti: l’aborto diventerebbe illegale in ben 21 Stati, a cui è probabile se ne aggiungano altri 5. Le norme riguarderebbero così il 41% delle donne americane.

Secondo la Corte, “la Costituzione non fa alcun riferimento all'aborto e nessun diritto del genere è implicitamente protetto da alcuna disposizione costituzionale”. La sentenza arriva al culmine di una vera e propria guerra dichiarata dagli stati a guida repubblicana nei confronti dei diritti riproduttivi. Negli ultimi dieci anni, in questi stati sono state approvate leggi via via sempre più restrittive nei confronti dell’aborto, come la famosa legge texana che oltre a vietare l’aborto dopo le sei settimane ha introdotto una ricompensa di 10mila dollari per chiunque ne denunci uno. L’obiettivo dichiarato è sempre stato quello di arrivare alla Corte Suprema, che nella sentenza si pronuncia infatti sulla costituzionalità di una di queste leggi, approvata in Mississippi nel 2018.

Quella divulgata da Politico è solo una bozza: significa che la decisione non è stata ancora presa e tutto dipende da come voterà il giudice John Roberts. La Corte Suprema è infatti formata da un totale di nove giudici, cinque dei quali di orientamento conservatore. Di questa rosa fa parte anche Roberts, che però in passato si è mostrato più aperto dei suoi colleghi in tema di diritti riproduttivi. Nel 2020, ad esempio, pronunciandosi su una legge della Louisiana che avrebbe imposto maggiori restrizioni alle cliniche abortive, si allineò al voto dei giudici progressisti. Inoltre, Roberts ha avuto diversi contrasti con Alito, il giudice che ha redatto la bozza.

Il testo di Alito utilizza un tono molto schietto, che i giornalisti John Gersetin e Alexander Ward hanno definito “quasi canzonatorio” rispetto alle pronunce precedenti sul tema: vi è scritto che la sentenza Roe è “terribilmente sbagliata fin dall'inizio” e che, anziché risolvere le controversie sul tema ha “infiammato il dibattito e acuito le divisioni”. Secondo Alito, la sentenza Roe suggerisce che “il diritto all’aborto può essere trovato da qualche parte nella Costituzione” ma che “specificarne l’esatta collocazione non sembrava di particolare importanza”. Ha inoltre affermato che il criterio della viabilità – cioè il momento della gestazione in cui il feto può sopravvivere autonomamente al di fuori dell’utero e che è adottato come criterio per stabilire il termine di settimane dell’aborto – “non ha alcun senso”.

Alito ha citato altri casi in cui il ribaltamento di una sentenza ha portato progressi alla società americana, come nel caso della segregazione razziale. Ha inoltre detto che la Roe era una sentenza “estremamente debole”, citando anche il parere critico della scomparsa Ruth Bader Gingsburg, una giudice liberal che è sempre stata dalla parte delle donne. La Roe v. Wade infatti legittima l’aborto sulla base del diritto alla privacy, sostenendo l’esistenza di una sfera intima e personale su cui lo stato non può intervenire. Questa impostazione è stata sì criticata da Bader Gingsburg, ma non perché la giudice volesse impedire alle donne di abortire, come invece vogliono fare i governatori repubblicani.

Non bisogna infatti dimenticare che le leggi contro l’aborto passate nei singoli stati sono il frutto di uno sforzo conservatore molto esteso, che ha goduto anche del favore della presidenza Trump. L’ex presidente, presenza fissa alle marce antiabortiste, tra i primi ordini firmati all’inizio del suo mandato approvò il blocco dei finanziamenti alle Ong americane che offrono servizi di interruzione di gravidanza nei Paesi in via di sviluppo, ostacolando l’autonomia riproduttiva di 1,65 miliardi di donne nel mondo. Nel 2019, minacciò il veto su una risoluzione delle Nazioni Unite contro lo stupro di guerra a meno che non fossero tolti tutti i riferimenti, anche indiretti, all’aborto. Infine, a ottobre 2020 firmò la Geneva Consensus Declaration, un impegno internazionale a ostacolare le politiche abortive, insieme a Paesi come il Brasile, l’Egitto, l’Ungheria e la Polonia. Trump ha sempre goduto del sostegno delle organizzazioni antiabortiste, che negli Stati Uniti sono molto ricche e influenti. La maggior parte di esse è costituita da cristiani evangelici, che rappresentano la base dell’elettorato trumpiano. Sono proprio queste organizzazioni ad aver redatto le leggi approvate negli Stati repubblicani, che si somigliano molto fra di loro quando non sono leggi-fotocopia.

Il fatto ancor più preoccupante è che se questa decisione sulla Roe potrebbe impattare negativamente anche altre sentenze della Corte Suprema che si basano sul diritto alla privacy, come quella che ha dichiarato incostituzionale il reato di sodomia (e decriminalizzato, quindi, l’omosessualità) nel 2003, quella che ha depenalizzato l’uso dei contraccettivi nel 1965, quella che ha legalizzato i matrimoni misti nel 1967 e i matrimoni tra persone dello stesso sesso nel 2015. Tutti temi che da anni sono nel mirino dei conservatori. È quindi davvero improbabile pensare che un ribaltamento della sentenza sia stato fatto per migliorare il quadro normativo sull’aborto. Da anni il movimento delle donne denuncia il regresso dei diritti riproduttivi negli Stati Uniti e mette in guardia contro un’escalation che potrebbe coinvolgere quelle che sono le più importanti conquiste nei diritti degli ultimi cinquant’anni. Negli ultimi trenta, 59 stati nel mondo hanno allentano la legislazione sull’aborto. Solo tre sono tornati indietro: Polonia, El Salvador e Nicaragua. Presto a questa lista di Paesi con qualche problema di autoritarismo, si aggiungerà quella che ci ostiniamo a definire “la più avanzata democrazia al mondo”.

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Jennifer Guerra è nata nel 1995 in provincia di Brescia e oggi vive in provincia di Treviso. Giornalista professionista, i suoi scritti sono apparsi su L’Espresso, Sette, La Stampa e The Vision, dove ha lavorato come redattrice. Per questa testata ha curato anche il podcast a tema femminista AntiCorpi. Si interessa di tematiche di genere, femminismi e diritti LGBTQ+. Per Edizioni Tlon ha scritto Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (2020) e per Bompiani Il capitale amoroso. Manifesto per un Eros politico e rivoluzionario (2021). È una grande appassionata di Ernest Hemingway.
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