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Ucciso a botte dalla polizia, il diario della vicenda di Federico Aldrovandi, morto a 18 anni

“Non era nella mia cultura dubitare degli operatori di polizia, poi…”. Così comincia il racconto di Fabio Anselmo, autore di ‘Federico’, un libro-biografia dedicato dall’avvocato dei casi Uva e Cucchi alla vicenda di Federico Aldrovandi, lo studente massacrato la sera del 25 settembre 2005 a Ferrara.
A cura di Angela Marino
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Chi era Fabio Anselmo prima di Adrovandi? In cosa credeva?

All'epoca ero un avvocato di provincia salito alla ribalta delle cronache per un caso di malasanità che ha colpito me e mia moglie in prima persona, in occasione della nascita del mio secondo figlio. Ero un avvocato ambizioso e credevo profondamente che ciascuno, indipendentemente dalle responsabilità, abbia diritto a una difesa. Oggi ci sono persone che non difenderei più.

I medici, per cominciare.

Sì. Nel 2005 ero reduce dalla battaglia in tribunale contro chi aveva avuto responsabilità nella tragedia che colpì la mia famiglia, in particolare un primario di ginecologia. Una battaglia, in realtà, contro i cosiddetti poteri forti. È per questo che Patrizia e Lino (Aldrovandi, i genitori di Federico) mi hanno cercato per il loro caso.

In che senso?

Non tanto per la mia esperienza con la malasanità, ma per quella battaglia che mi aveva visto sotto i riflettori in una piccola città di provincia come Ferrara, come vittima, prima che avvocato. È come testimone di una verità, quella che in certe storie a doversi difendere dalle accuse, dai cosiddetti ‘se l'è cercata', sono proprio le vittime. 

Quale fu la sua prima impressione sui fatti di via dell'Ippodromo?

Quattro agenti avevano fermato un ragazzo morto sotto i loro occhi, per overdose. Non apparteneva alla mia cultura mettere in dubbio quanto ricostruito dagli operatori di polizia, ma ero confuso. Com’è possibile, mi chiedevo, che si parli di droga, di overdose, se Federico ha il corpo sfigurato dalle percosse?

Quanto c’entra la droga in questa storia?

Nulla. Gli esami tossicologici hanno evidenziato tracce di una dose molto modesta – e non da assunzione recente – e il corrispondente di una birra: altro che mix letale di alcol e droga, nello stato in cui era Federico poteva addirittura guidare.

Eppure i giornali continuano a titolare ‘morto per droga', finché, per contrastare la propaganda, Patrizia non apre un blog.

Confesso che di internet io ero pratico zero e avevo anche paura di finire in un altro processo mediatico. Quando Patrizia me lo ha chiesto ho tergiversato per bene tre mesi, poi una sera, complice l’alcol le ho detto di sì. 

E cambia tutto.

Sì, anche perché con la risonanza che la voce di Patrizia e Lino avevano acquistato attraverso internet, decisi di attuare un cambio di passo: di accusare apertamente Procura e Questura.

Una scelta coraggiosa che poteva costarle la carriera.

Federico aveva 18, mi sono detto, se non la rischio per lui allora non ha senso.

E infatti si arriva a processo, imputati i quattro agenti.

Un processo difficile, che mi ha sorpreso quasi impreparato al cospetto dei baroni del foro che difendevano i poliziotti. E che ho vissuto, come al solito, con l’animo di chi quel torto lo ha subito sulla propria pelle.

Qual è stata l’emozione che ha provato più spesso in aula?

Rabbia per Federico, ma più che per la sua morte, per il ritratto che ne hanno fatto, quello di un drogato sbandato.

Invece Federico era un ragazzo con la testa sulle spalle.

Studiava, era impegnato in un programma scolastico di sensibilizzazione contro l’uso della droga, faceva karatè, lavorava, aveva mille interessi. Aveva una marcia in più quanto a intelligenza e sensibilità, era molto speciale e non lo dico per il grande affetto che ho per Lino e Patrizia, no. Lo si vedeva, lo si capiva dai racconti degli insegnanti, degli amici, dai suoi temi. Non è stato giusto trattarlo in quel modo. 

“ Ho imparato che essere collerici significa solo paura e inferiorità. Bisogna stare bene con se stessi. ”
Da un tema di Federico

In lui rivede un figlio?

Rivedo ‘mio' figlio, con tutte le sue contraddizioni, la sua voglia di vivere. Qualcuno ha detto: "Siamo tutti sopravvissuti ai 18 anni". A 18 anni si morde la vita e lui purtroppo ne è rimasto ucciso.

In tutti questi anni avrà sognato quella maledetta notte tante volte. Come se l'è figurata?

È uno dei tre misteri che affronto nel libro quello della notte del 25 settembre. Credo che la ricostruzione più attendibile di quella sera fu quella che ne fece Ivo Silvestri, un anziano residente in via del’Ippodromo. Raccontò di una discussione iniziata tra Federico e i poliziotti e poi degenerata nel massacro che fu.

L'avranno sognata anche gli altri protagonisti, i quattro agenti.

Non ho mai provato a figurarmi la storia dal loro punto di vista, a immaginarmi cosa pensano la notte, non vorrei mai essere al loro posto, nessuno lo vorrebbe. 

L'epilogo del caso è una condanna per ‘eccesso di uso delle armi', ormai scontata. Come mai, dopo 13 anni, sulle ceneri ormai spente del caso, ha deciso di scrivere, per Fandango Libri, la storia di Federico?

La storia di Federico è un po’ la storia della mia vita, di un sopruso subito da chi doveva salvaguardare la tua integrità fisica e la tua sicurezza e invece ha fatto tutt'altro. La rabbia per la sua vicenda (e per la mia) è stata il motore della mia vita da allora fino ad oggi, quello che mi ha spinto ad assumere casi come quello di Stefano Cucchi, Giuseppe Uva o Davide Bifolco, vittime di chi doveva proteggerli. Sa, credo che tutto si possa riassumere in un solo concetto.

Quale?

È terribile essere vittima dei buoni.

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